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L’estate suggerisce un primo bilancio delle parole-chiave lavorate per questa rubrica. Abbiamo perlustrato i principali territori in cui la comunicazione moderna si articola, dall’impressionante fortuna dell’intrattenimento allo stato di salute dell’informazione, senza trascurare l’impatto della polarizzazione dei discorsi e a quella che Posteraro ha chiamato “il volto opaco della Rete”.

Avviandoci a una provvisoria conclusione di questa impaziente tag cloud semantica, la prima constatazione è il peso delle parole della crisi scaricato sui pubblici dai media elettronici e digitali. Nessuna comunità umana, nessun Paese può reggere serenamente una narrazione così drammatizzata della realtà, tutta fondata sul potere di moltiplicazione delle percezioni individuali.

È allora urgente dire qualche verità in più sul potere che la comunicazione sta esercitando. La nostra dimensione di umanità è suggestionata dai media quasi senza negoziato e spesso senza che ce ne accorgiamo, seguendo distrattamente il filo dell’imitazione e delle mode.

Una prima verità è che siamo diversi da tutte le società del passato, anche recente. Questo significa che siamo cambiati e, se cambiamento c’è stato, è impossibile non chiamare in causa la variabile più prorompente e performativa del nostro tempo: abbiamo fame di emozioni, come mai era successo ai nostri predecessori, e ne facciamo scorpacciata attraverso i media. Così rischiamo di rimanere vittime della stimolazione che la comunicazione esercita sulle nostre percezioni e persino sulla nostra dimensione biologica. Non ci fermiamo davanti ai confini che la realtà ci pone innanzi e pensiamo di superarli esplorando mondi nuovi e riempendo i gusci lasciati vuoti dalla crisi dei punti di riferimento.

Qui ci avviciniamo a un secondo grado di verità che riguarda la presa che la comunicazione esercita sulla nostra vita, sulla nostra mente e sugli immaginari. Noi cambiamo essenzialmente nelle risposte da dare a un interrogativo radicale: cosa fare degli altri? Avvertiamo un estremo bisogno di osservarli non più da vicino (come avveniva nelle società del passato fondate sulla socialità primaria e sulla partecipazione), ma attraverso le narrazioni offerte dai media. Paul Ricoeur ci ha ammonito che “noi conosciamo l’altro attraverso i racconti che lo riguardano”.

Questa scoperta ha però una conseguenza etica sul nostro presente perché induce a neutralizzare il bisogno di incontro reale, fisico e verbale con l’altro, dal momento che ne abbiamo fatto incetta nei territori virtuali. Stiamo toccando un tasto decisivo per leggere le passioni dell’uomo moderno ed è rintracciabile nell’osservazione dei tempi di vita e delle priorità con cui riempiamo questi vuoti, aumentando ogni giorno il budget time dedicato ai media e agli schermi.

E così licenziamo progressivamente altre dimensioni che in passato erano decisive per la socializzazione, la trasmissione dei valori e la costituzione sociale degli individui. La prova è nell’abuso del termine “crisi”, a cui siamo costretti. C’è ben altro. Alcune delle dimensioni istituzionali dei processi di indicazione e normazione sociale sono sospese tra declino e tramonto. Persino quando alcune di queste dimensioni sopravvivono sul piano formale (famiglia, scuola, religione, politica, ecc.), dando l’ingannevole sensazione che restino al loro posto, subiscono un processo di lavaggio e depotenziamento che fa venire in mente l’espressione “vuoti a perdere”.

È impossibile non trarre la conclusione che la vittoria della comunicazione non è gratis, non avviene a parità di condizioni rispetto alle garanzie di socialità del passato. È più esatto ammettere che la comunicazione sostituisce gradualmente altre dimensioni, spostandole educatamente verso la polvere e l’oblio.

Siamo così convinti che, nel saldo complessivo, non abbiamo perso qualcosa di rilevante? Oppure, abbiamo rinunciato a una dimensione su cui meditare, in termini di principio di precauzione: le istituzioni hanno sempre fatto parte della storia degli uomini, ma oggi, con una visione da superuomini, le buttiamo via, e chiamiamo tutto questo perfezionamento dell’umano.

Articolo pubblicato sul numero 139 della rivista Formiche

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