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Il presidente russo, Vladimir Putin, non ha perso l’occasione pubblica del Forum economico di Johannesburg per far emergere la sua maggiore scaltrezza e raffinatezza nel gestire le questioni internazionali rispetto all’omologo americano: “Siamo pronti a invitare Donald Trump a Mosca”, ha detto venerdì; lui lo sa, gliel’ho già detto, e io sono pronto ad andare a Washington “se ci saranno le giuste condizioni”.

Il proseguimento dei contatti diretti avviati col vertice di Helsinki sta diventando una tiritera delicata per l’americano, che in casa è stato contrastatissimo da entrambi gli schieramenti politici (meno dai cittadini) e che ha dovuto ufficialmente rinunciare alla voglia matta di ospitare Putin nello Studio Ovale almeno fino al prossimo anno.

La vicenda è anche interessante per capire come spesso conduce la sua politica Putin.

Col Russiagate che continua imperterrito (e i media tornati a ritmo di rivelazioni quotidiane) e con le polemiche sull’invito (dopo una performance considerata non proprio brillante sul campo neutro finlandese), il russo gioca contro Trump. Putin è più stabile certamente, non ha problemi di bilanciamenti in vista di competizioni elettorali (invece Trump deve tenere in piedi l’armistizio con il partito almeno fino alla Midterms, e anche per questo dopo la riunione col Consiglio di sicurezza nazionale ci ha tenuto a far sapere che “non tollereremo interferenze straniere su voto”). Putin ha la grande capacità di creare condizioni caotiche e divisive.

Sa perfettamente che un batter d’ali della farfalla con cui il Cremlino apre a Trump può provocare un tornado a Washington. Una dozzina di giorni fa, dopo che la portavoce della Casa Bianca aveva ventilato l’ipotesi dell’ospitata washingtonians del presidente russo in autunno, e creato scompiglio tra la politica e la sicurezza nazionale americana, gli uomini di Putin avevano corso in avanti e iniziato a parlare di qualcosa come un invito formale ricevuto. I fatti, adesso, dicono che non era vero, tanto che il Consigliere per la Sicurezza nazionale mercoledì ha annunciato lo slittamento di qualsiasi nuovo contatto all’anno nuovo, ma tanto era bastato per creare isteria tra i corridoi di Washington fino a Langley e Arlington.

È Trump a correre per difendersi, spiegare, precisare fraintendimenti, bilanciandosi tra chi (con vari interessi) lo vorrebbe più severo con la Russia e chi (per altrettante varie ragioni) vorrebbe una linea aperta che prescrivesse tutto a Putin — interferenze, Ucraina, Siria e via dicendo.

Intanto funzionari dell’intelligence americana dicono al New York Times che non stanno registrando “troppi” attacchi contro politici candidati alle elezioni di metà mandato: potrebbe essere perché le elezioni di medio termine sono molto più difficili da influenzare di una corsa presidenziale e richiederebbero interventi separati in oltre 460 contests, molti dei quali sarebbero di scarso interesse per una potenza straniera, spiegano. Però, “sorprendentemente”, si registra uno sforzo maggiore per impiantare malware nella rete elettrica statunitense.

Questa settimana, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale ha dichiarato che nell’ultimo anno, l’agenzia di intelligence militare russa si era infiltrata nelle sale di controllo delle centrali elettriche negli Stati Uniti — e pare che la portata della minaccia sia stata sottovalutata: finora la Casa Bianca ha dato ordine di parlare poco delle intrusioni oltre per non sollevare il timore di tali violazioni, non creare un clima anti-russi, e per non mettere in difficoltà il mantenimento delle vecchie centrali a carbone (pallino trumpiano) che sarebbero le più vulnerabili.

 

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