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“Sogno e popolo, ciò che é stato perduto”: dice Walter Veltroni per spiegare la crisi della sinistra italiana ed il suo sbigottimento. Termini che, in questo caso non sono sinonimi, ma si sommano per rendere plastico uno smarrimento la cui profondità è tutta da indagare. Il sogno di cui parla Veltroni evoca, senza troppi giri di parole, il “dream” di Martin Luter King. Che, per la verità, non fu solo un sogno, ma anche una speranza. Per poi trasformarsi in un obiettivo politico, al termine della grande marcia davanti al Lincoln Memorial di Washington.

Il riferimento al popolo, invece, assume un significato meno tradizionale rispetto alle locuzioni più volte usate da altri dirigenti della sinistra. Trova la sua legittimazione nelle parole che aprono la costituzione americana – we, The people – e nel fatto che lo stesso Luther King non esitò mai a disconoscere il suo populismo. Ne deriva, pertanto, una curiosa conseguenza. “Il populismo” tradizionale bestia nera della sinistra, grida Veltroni è “un’espressione comoda per indicare una politica” che si rivolge al disagio sociale. Ma è “una definizione sbagliata. É destra, la peggiore destra”. Chissà come avrà reagito Matteo Salvini, con il suo continuo riferirsi al popolo sovrano?

Quest’acquisizione teorica, sebbene tardiva per molti versi, consente a Veltroni di tracciare una linea o meglio un cuneo nell’attuale maggioranza di governo. I cattivi o i barbari sono gli esponenti leghisti, mentre per i 5 stelle non c’è certo la tradizionale condiscendenza per i compagni che sbagliano. Ma qualcosa di più: “nei confronti dei cinquestelle – afferma – la sinistra ha compiuto gravi errori.” Soprattutto non ha capito che “molti di quei voti sono elettori di sinistra. Che molti dei cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito per scegliere i pentastellati o sono rimasti a casa”. Più di un’apertura di credito. Ma anche il tentativo di ricollocare all’interno dell’analisi politica lo spartiacque Destra – Sinistra (e non sovranismo – europeismo) come principale elemento di discrimine.

È convincente questo tentativo di recupero della metodica tradizionale, seppure adornata di un linguaggio più moderno? Per rispondere è necessario guardare all’Europa. Dove si sono, da sempre, confrontati due diversi linguaggi. Il primo retorico, le mille buone intenzioni con cui sono state lastricate le vie dell’inferno. Fino al l’inevitabile crisi: Grecia e non solo. Il secondo più nascosto. La lingua dotta riservata, come durante l’antichità, a principi ed ambasciatori, quando trattavano degli affari di stato. Un linguaggio molto più ruvido, ma anche più veritiero.

Ma veramente si può credere che l’obiettivo principale di questi conciliaboli sia sempre stato quello di ottenere il maggior bene comune? Come ancora oggi si sforzano di dimostrare i retori dell’europeismo. Se così fosse, non si sarebbe consentito alla Germania di avere un surplus strutturale delle propria bilancia commerciale, da risultare scandaloso. L’onere del finanziamento della crisi bancaria sarebbe stato posto soprattutto a capo di quei Paesi che, con le loro banche (Germania, Francia e Gran Bretagna) vi avevano maggiormente contribuito. E non ripartito in base al valore delle quote di capitale della Bce. Mille altri esempi potrebbero continuare. Basta accennare ai migranti.

La verità è che il “sovranismo” non è stato un’invenzione di Matteo Salvini, ma una pratica costante, che ha sempre caratterizzato la politica dei Paesi più forti (si pensi solo all’intervento in Libia contro Gheddafi), poi mascherato dalla retorica del rispetto di nobili principi. Il populismo italiano non ha fatto altro che gridare “il re è nudo”, per vedere radunarsi intorno a sé quelle persone ch’erano stanche di essere prese in giro da una retorica inconcludente. Tornare quindi ai fondamentali (destra vs sinistra) può essere anche utile. Ma a condizione che non sia nuovamente il buonismo, o come lo si voglia chiamare, contro il realismo. La relativa partita sarebbe persa in partenza.

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