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Il governo Conte, con un provvedimento d’urgenza, va in soccorso di Banca Carige per evitarne un collasso finanziario dalle potenziali conseguenze serie sul sistema bancario e sulle tasche di non pochi risparmiatori. Quindi possiamo dire che anche questo governo agisce (addirittura con una riunione ad hoc del Consiglio dei ministri) per “salvare” una banca, facendo così coriandoli di uno degli argomenti usati per mesi da Lega e M5S contro i governi Pd guidati da Renzi e Gentiloni.

Qui però occorre una prima operazione “verità” che darà fastidio a molti ma che risulta necessaria per proseguire con un minimo di dignità intellettuale questo discorso. Si tratta cioè di accettare (una volta per tutte) una semplice condizione del nostro tempo: la finanza ne è padrone assoluto. Quindi non solo le banche vanno “salvate”, ma occorre farlo in fretta e con ampio uso (se necessario) di soldi pubblici. A riprova di questo ricordiamo il dato (calcolato qualche anno fa dall’agenzia Bloomberg) sui soldi prestati (a tasso zero) dalle autorità federali Usa per sostenere le banche a stelle e strisce. Ebbene quella stima conduce alla cifra mostruosa di 7.700 miliardi di dollari, pari a circa il 50 % del Pil americano (che è ancora di gran lunga il più grande del mondo).

Quindi è chiaro a chiunque abbia un minimo di sale in zucca che tali passaggi sono sostanzialmente ineludibili (la Germania, secondo dati ufficiali della Commissione Ue, per le stesse operazioni ha impiegato 197 miliardi di euro, che diventano 465 se consideriamo anche garanzie statali e linee di liquidità, per un totale pari al 17 % del Pil), pena cataclismi di tale portata da non essere sostenibili da nessun Parlamento o governo democraticamente eletto. Quindi il “governo del cambiamento” ha fatto quello che doveva fare, come (nella sostanza) hanno fatto i suoi predecessori.

Ripensino quindi i Di Maio, i Salvini e i Di Battista a molte delle loro parole degli anni 2015-2016, quando hanno usato la clava contro governi che, sostanzialmente, non potevano fare diversamente da quello che hanno fatto (penso soprattutto al caso Monte Paschi di Siena). Siccome però nella notte tutti i gatti sono grigi, noi abbiamo il dovere di mettere un po’ di luce per vedere se è proprio tutto uguale, se non potevano andare diversamente le cose, se è tutto marcio o c’è qualcosa da salvare. Ecco allora emergere alcune situazioni ed alcune verità che dobbiamo onorare. Punto primo (in Italia e un po’ in tutto il mondo) le istituzioni di controllo e garanzia non hanno controllato né garantito un fico secco, lasciando le situazioni a marcire per anni.

Punto secondo non tutte le operazioni sono uguali. È vero quello che dice Di Maio, quando afferma che a oggi lo Stato non mette un euro su Carige. Ma è anche altrettanto vero che l’operazione sull’istituto ligure somiglia molto a quella Monte Paschi, dove (qualche tempo dopo) lo Stato i soldi li ha messi eccome finendo per diventare il proprietario della banca. È una buona o una cattiva idea ritornare allo Stato banchiere? Il dibattito è aperto, ma ricordo a tutti che poco più di venti anni fa decidemmo che era arrivato il momento di chiudere con le banche pubbliche, avviandone una drastica privatizzazione (mitigata dal ruolo delle Fondazioni Bancarie).

È però vero anche quello che disse Renzi a suo tempo (autunno 2015): anche nel salvataggio di quattro piccole banche locali (tra cui Banca Etruria) lo Stato non ci mise un euro, poiché furono i fondi del sistema bancario a chiudere quella partita, con il governo che ne garantì il quadro giuridico. Diversa è invece la vicenda della banche venete, dove invece lo Stato ha dovuto spendere diversi miliardi di euro (giugno 2017, governo Gentiloni) per convincere Banca Intesa ad assorbire gli istituti in difficoltà.
Punto terzo: queste operazioni sono tutte di analoga importanza, tutte meritevoli di un intervento d’urgenza dello Stato? Secondo me no, perché di primaria grandezza sono soltanto due di queste situazioni, cioè Monte Paschi e Carige. Le banche venete lo sono meno ed ancor meno lo sono le quattro piccole banche locali di cui all’intervento del governo Renzi del 2015 (che però fu senza costi diretti per lo Stato).

A tutto ciò vanno aggiunti due punti a mio avviso essenziali per comprendere gli effetti politici di queste vicende, due punti che spiegano il contributo micidiale di questi salvataggi bancari sulle dinamiche di consenso elettorale. In primo luogo la platea dei risparmiatori, che nei casi di Banca Etruria (e le altre tre), Monte Paschi e banche venete hanno avuto un ruolo decisivo con esposizione sui media gigantesca: su questo “popolo” trascurato e (in parte, solo in parte) truffato i governi a trazione Pd hanno pagato prezzi altissimi, non riuscendo a trovare un modo efficace di contenerne la frustrazione. Su questo punto la vicenda Carige non ha per ora nulla di analogo, ma conviene al governo pensarci per tempo.
Infine c’è un aspetto tutto legato ai tempi ed ai modi dell’esercizio del potere. Tutte le ricerche demoscopiche dimostrano che la crisi vera nel rapporto “emotivo” tra Renzi e il suo elettorato arriva proprio nell’autunno 2015, in perfetta coincidenza con il primo intervento sulle banche. In quel momento il PD è (di fatto) al governo dal 2011 (contando anche gli esecutivi guidati da Monti e Letta), è cioè nella fase “matura” della sua esperienza di governo. Inoltre la leadership di Renzi è già sostanzialmente “assoluta” poiché improntata a quel metodo da “uno contro tutti” che poi finirà per naufragare un anno dopo al referendum sulla Costituzione. Quindi è una leadership perfetta (con tanto di cerchio magico toscaneggiante) per essere aggredita da tutte le parti, esattamente come avviene in quei mesi generando una crisi di consenso da cui il Pd non riuscirà più a riprendersi.

Oggi la situazione è diversa, perché non c’è una folla di risparmiatori inferociti e perché al governo c’è una coalizione e non un sol uomo. Ma facciano pace con se stessi i Di Maio, i Salvini e i Di Battista: anche a loro tocca salvare una banca. E non è detto che sia l’ultima.

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