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Nella solitudine e nel silenzio di una piccola comunità del Trentino moriva, sessantaquattro anni fa, Alcide De Gasperi. Si era allontanato da Roma con la tristezza di tre sconfitte politiche: il voto del 7 giugno del 1953 che sconfisse. Il suo tentativo di assicurare alla giovane democrazia una stabilità di governo, il voto francese che bocciò il trattato della Comunità Europea di Difesa e con esso il cammino verso un’Europa federalista e, infine, la sua personale sconfitta al Congresso del suo Partito a Napoli pochi mesi prima. La sua salma attraversò il Paese e sembrò che l’Italia ritrovasse una sua  identità nazionale  nel progetto di ricostruzione, di sviluppo del lavoro e del reddito (il piano Vanoni, che De Gasperi a Napoli aveva lasciato in eredità al suo partito, e il piano per il lavoro di Di Vittorio), pur nel duro scontro politico bipolare. Lo stanco segretario democristiano, nei suoi ultimi giorni di vita, avrà avuto modo di ripensare alla sua lunga battaglia per la libertà – non solo le libertà formali ma anche quelle sostanziali che faranno della Costituzione italiana un modello – che sola dà significato e forza alla democrazia rappresentativa. Non erano stati facili, per De Gasperi, i giorni della firma del Concordato e del Patti Lateranensi  tra il Fascismo e la Chiesa Cattolica. Poteva, la conclusione della storica questione tra Chiesa e Stato, giustificare la privazione delle libertà agli italiani? Certamente no. Nel 1947, in un regime di libertà, si poteva evitare uno scontro civile e religioso inserendo i Patti del  1929, possibili ad essere modificati di comune accordo, come avverrà a metà degli anni ottanta? Certamente sì.

De Gasperi non poteva non ritornare alle ragioni della libertà come base della sua battaglia politica contro il comunismo.  Neanche in nome di una equa distribuzione della ricchezza si poteva accettare la privazione della libertà con la dittatura del proletariato. Ma, al tempo stesso, non si poteva cedere al liberismo economico, cosa ben diversa, come scriveva Croce, dalla libertà. Il suo amico aveva guidato De Gasperi alla difesa dell’intervento pubblico in economia, a convincere gli americani sull’utilità dell’Iri e poi, in Parlamento, sulla necessità dell’Eni di Mattei. Nonostante le resistenze interne al suo Partito De Gasperi andò in Basilicata, scelse la strada di un moderno intervento di sviluppo del Mezzogiorno partendo dalla rottura dello strapotere dei ceti agrari parassitari con la riforma agraria e dei patti di lavoro in agricoltura.

Nel silenzio delle montagne non poteva non ricordare la solitudine delle sue decisioni strategiche che si scontrarono sia con i conservatori sia con la sinistra dei dottori di Cronache Sociali a partire dalla collocazione internazionale dell’Italia. Ricordava le difficili giornate dei dibattiti parlamentari dei trattati atlantici. Il contrasto duro con i comunisti era scontato ma quello con gli ambienti vaticani e il suo Partito non lo era del tutto. Da montanaro tenne ferma la posizione sapendo che vi era bisogno dell’alleanza con i partiti laici e socialdemocratici, anche quando egli avesse avuto la maggioranza assoluta per governare solo con i voti democristiani. L’interesse del Paese valeva più dell’interesse del Partito. Come non ricordare le giornate del Congresso del 1951 a Venezia e l’affondo della sinistra per portare i democristiani ad assumersi tutta intera la responsabilità? De Gasperi rispose che una competenza valeva più di una tessera di partito. Il Presidente del Consiglio non attraeva a sé le giovani generazioni, nel 1946 – ai membri della gioventù democristiana – chiese di non fare mai promesse che non fossero in grado di mantenere. Ma i giovani non capivano  il suo linguaggio, era più familiare quello della sinistra. A loro proponeva una grande utopia: quella europea, ma anche questa venne vista come il tentativo di tre anziani leader, Adenauer, De Gasperi, Schuman, di restaurare un sogno carolingio. C’era l’URSS che avanzava e che affascinava con la sua proposta di pace, di eguaglianza, di uscita dal conservatorismo clericale. Il nuovo era nel sole dell’avvenire e gli intellettuali non resistettero. De Gasperi era il perdente e la vulgata storica assecondò il sentire diffuso.

Con il passare del tempo si aprono squarci di verità e De Gasperi sembra più aver ragione, come nota un autorevole storico che ha scritto molto sui limiti del centrismo e sul conservatorismo di De Gasperi.

Non avevo la maggiore età il giorno in cui un mio fraterno amico, Michele La Calamita, mi portò nella stanza di De Gasperi; scendemmo da Piazza del Gesù e vedemmo, dai gradini della Chiesa dei Gesuiti, passare il feretro del Presidente. L’avevo visto insieme ad alcuni dirigenti della gioventù cattolica nei giorni della Pasqua quando fummo allontanati per deviazioni ideologiche. Ci invitò a completare gli studi e, soprattutto, a non perdere la speranza e la fiducia anche quando tutto sembrava perso. Non ho mai dimenticato il ricordo di quello sguardo sereno, anche se addolorato. Aveva ragione lui.

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