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Ci sono alcuni punti fermi nella complessa vicenda Alitalia che vale la pena ricordare. Al primo posto c’è il buon lavoro dei commissari Gubitosi, Laghi e Paleari, che nel primo semestre di quest’anno hanno portato a casa miglioramenti in tutti i parametri sensibili dell’azienda, con un +4,3 % dei ricavi, un -8,6 % dei costi operativi, un +0,8 % del “fattore di carico” (cioè il riempimento degli aerei, il vero segreto delle compagnie aeree in salute) ed il drastico cambiamento del management con sostituzione di quasi tutte le prime linee ed arrivo in azienda di forze finalmente adeguate alla sfida internazionale. Certo, la compagnia continua a perdere circa 1 milione di euro al giorno, ma la rotta è stata invertita, elemento essenziale per poter guardare al futuro.

In secondo luogo va compresa la “tempistica”, poiché non molti ricordano che a fine ottobre scade il prestito dello Stato da 900 milioni di euro, che Alitalia potrebbe rimborsare solo azzerando la cassa, ragione per cui l’ipotesi non è proponibile. Quindi sul versante dei tempi ci arriva la seconda certezza: entro l’autunno va trovata una soluzione, poiché andare oltre fa diventare tutto molto complesso anche sul fronte finanziario.

Al terzo posto c’è poi la reale appetibilità di Alitalia, sulla quale si sono esercitati diversi operatori di livello mondiale, Lufthansa e easyJet in primis. Qui va detta la cruda verità: nessuno ha avanzato proposte formali, esistono solo dichiarazioni d’intenti espresse certamente con convinzione, ma ben lontane da essere messe nero su bianco. Ecco allora il rebus ora sul tavolo del governo, chiamato qui a sbrogliare la matassa probabilmente più difficile tra quelle d’attualità (Ilva, Tap e Tav), perché resa complessa dall’assenza di un’offerta concreta. Detto ciò, dobbiamo registrare le parole dei ministri Toninelli e Di Maio, combinate con alcune indiscrezioni (La Stampa di oggi) che indicano la volontà di una forte presenza dello Stato nel futuro di Alitalia.

Qui occorre ragionare con onestà intellettuale, perché altrimenti si finisce per fare facile demagogia. Tra tutti i potenziali acquirenti della compagnia di bandiera italiana quello che probabilmente potrebbe accettare un accordo ragionevole è Lufthansa, che però chiederebbe un drastico taglio dei dipendenti (si parla di 4-5 mila unita). A quel punto dovrebbe scattare un piano di tutela finanziato con soldi pubblici per evitare il danno occupazionale. Quindi lo Stato finirebbe per metterci altri soldi, pur in presenza di una vendita (che invece dovrebbe costituire un ricavo). O meglio il ricavo ci sarebbe, ma subito seguito da un esborso (di entità oggi difficile da quantificare). Questo spiega anche sotto il profilo dei conti perché il governo non sembra orientato alla cessione, nemmeno quella è senza costi.

A contrario però va anche detto che lo Stato imprenditore nel settore aereo (e non solo in quello) non ha quasi mai dato buona prova di sé, perché, alla fine, non è quello il suo mestiere. Non a caso Air France va male, mentre Lufthansa si salva anche grazie alla sua natura di public company con robusto socio pubblico. E poi va anche detto che proprio su Alitalia lo Stato ha fatto disastri per decenni, consumando miliardi di euro del contribuente e sbagliando tutte le scelte strategiche, a cominciare dalla ridotta presenza sul lungo raggio.

Insomma la situazione è tutt’altro che semplice da sistemare. Però non è la scorciatoia della newco tutta pubblica che salverà Alitalia. Imboccando quella strada si tornerà alla crisi nel giro di pochi anni.

Alitalia, partita durissima (ma bravi i commissari). Perché la newco pubblica non ci salverà

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