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Puntuale come accade ormai da alcuni anni a questa parte giunge in piena estate l’anticipazione del Rapporto Svimez sul Mezzogiorno che verrà presentato nella sua interezza soltanto in autunno. E anche questa volta l’associazione, presentando le risultanze delle sue analisi, se da un lato deve riconoscere i passi in avanti compiuti nelle regioni meridionali fra il 2015 e il 2017 in termini di crescita del Pil – dovuta anche ad un impegno dei due precedenti governi di cui è doveroso atto alle loro scelte politiche – dall’altro, evidenziando le criticità che nessuno (si badi bene) vuole sottovalutare, finisce tuttavia ancora una volta col disegnare scenari apocalittici del meridione che non riescono a coglierne le ormai profonde differenze strutturali fra le sue regioni e a loro interno, in termini di sviluppo dei vari comparti, occupazione, progresso civile, standard e qualità della vita, standing dei vari governanti.

Nulla di tutto questo almeno al momento – sperando che invece un’accurata analisi differenziata dell’intero Meridione appaia finalmente nell’edizione autunnale del Rapporto – mentre costante, immutata, irriducibile rimane la richiesta che rasenta ormai il dogmatismo di sempre nuovi investimenti pubblici in suo favore, come se non si ponesse già da lungo tempo il problema, tuttora irrisolto, di come e in quanto tempo riuscire ad impiegare (bene) le risorse non irrilevanti già stanziate a livello nazionale e comunitario con i vari programmi di spesa e di coesione. Né i ricercatori della Svimez compiono uno sforzo per focalizzare con chiarezza – insieme ai meriti di tutti coloro che ogni giorno nel Meridione lavorano, producono, competono, studiano, insegnano, ricercano, curano ed assistono – anche le responsabilità di tutti gli altri cui, invece, devono ascriversi i ritardi nella crescita di molti territori: responsabilità, là dove esistenti, che non sono sempre e soltanto dei governi e che, a nostro avviso, nell’Italia meridionale sarebbero da distribuirsi anche – è bene dircelo con chiarezza autocritica – fra amministratori pubblici locali, imprenditori, associazioni di categoria, apparati burocratici operanti a vari livelli, centri di ricerca, Università, organizzazioni sindacali e molto spesso anche associazioni del volontariato civico.

Non è sufficiente infatti affermare che alcune “Regioni hanno fatto meglio come la Campania e la Calabria”, dimenticando poi i risultati ottenuti, o almeno gli sforzi compiuti dalle altre, come Puglia, Basilicata, Abruzzo, Molise, Sardegna, ed aggiungendo infine che la Sicilia registra “l’emorragia più dirompente di residenti che l’hanno abbandonata”. Certo, i numeri ce lo confermano, ma bisognerebbe poi fare nomi e cognomi di coloro che a tutti i livelli hanno la responsabilità di una determinata situazione.

Ma quello che ormai da lungo tempo considero non condivisibile nelle analisi della Svimez è la sua continua sottolineatura – riproposta stancamente anche quest’anno – “di tutte le arretratezze che il Mezzogiorno continua a portarsi dietro”, come se in tanti anni di impiego di fondi nazionali e comunitari, ma anche di investimenti privati, non sia cambiato proprio nulla nelle regioni meridionali, come se fossimo sempre all’anno zero. Ma come si può continuare a fare simili affermazioni? Possibile che l’Italia meridionale sia solo perenne, diffusa e insuperabile arretratezza con poche oasi di modernità – peraltro mai analizzate nelle loro positive peculiarità territoriali e settoriali – assediate da livelli di degrado quasi da terzo e quarto mondo? Non è del tutto evidente in queste affermazioni dei ricercatori dell’Associazione una mancanza di conoscenza oserei dire fisica dei luoghi e delle realtà di cui parlano, leggendo solo alcuni dati macroeconomici che non rendono giustizia alle molteplici articolazioni di un Meridione che, invece, da oltre mezzo secolo si presenta sempre di più come un insieme molto più complesso di quanto si creda di modernità e di arretratezze?

Ad esempio, nell’ambito delle analisi dei tanti siti della produzione industriale in esercizio nel sud non sono molto più rigorose e approfondite le ricerche della Srm del Gruppo Intesa San Paolo che da anni stanno scandagliando l’intero Mezzogiorno individuandovi con rigorosa puntigliosità cluster di aziende di piccole, medie e grandi dimensioni facenti capo a società locali, settentrionali e di multinazionali estere che ormai competono con successo a livello internazionale? E i vari inserti di questa stessa testata dedicati a vari settori e aree di Puglia e Basilicata non hanno messo in evidenza come siano ormai sempre più numerose le realtà produttive di cui possiamo essere fieri?

Certo la disoccupazione giovanile (e non solo quella) è ancora alta, purtroppo, ma – analizzandola con rigore per fasce di scolarizzazione e di titoli posseduti – non dovremmo interrogarci sulla maggiore o minore adeguatezza alle domande del mercato del lavoro dell’offerta formativa di tante nostre scuole e atenei? Perché ad esempio gli Its – Istituti tecnici superiori, purtroppo ancora pochi in Italia e nel sud a differenza della Germania – riescono a ad occupare oltre il 90% dei loro diplomati? Solo perché sono a numero chiuso? O anche perché formano i giovani in stretta collaborazione con le aziende che poi li assumono?

Ma su tanti altri settori nell’Italia meridionale – dalle infrastrutture ai nosocomi, dai musei ai luoghi di gestione del tempo libero – andrebbero compiute dalla Svimez, ma non solo da essa, analisi molto più approfondite per evitare di indulgere a luoghi comuni e circoscrivere con precisione criticità e positività al fine di restituire rappresentazioni finalmente veritiere ed attendibili delle molteplici situazioni di cui molto spesso si parla in maniera sommaria.

Allora chi scrive teme che ormai da tempo la Svimez sia venuta perdendo il contatto reale con le regioni meridionali che, invece, al momento della sua fondazione e per molti anni successivi costituì l’impegno costante ed apprezzato dei suoi autorevoli Padri fondatori; sarebbe pertanto necessario all’associazione un profondo ricambio di amministratori, studiosi e di ricercatori per imprimerle quel balzo in avanti di cui essa ha urgente bisogno.

Un’ultima domanda (non impertinente) al vertice della stessa associazione: perché la Svimez, che si batte dal 1946 per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, edita i suoi volumi e riviste con la casa editrice Il Mulino che è di Bologna? Per ragioni di mercato? E possibile che nessuna casa editrice del Mezzogiorno, dalla Laterza alla Giannini, dalla Cacucci alla Rubbettino, abbia costi concorrenziali con quelli del Mulino, che comunque è una casa editrice prestigiosa, come del resto lo sono le altre che abbiamo richiamato?

infocamere, mezzogiorno, industria, sud

Apocalisse nel Mezzogiorno? Perché non condivido l’analisi dello Svimez

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