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Ha torto il portavoce del presidente del Consiglio sui metodi ed è un errore che può dare forza a quelli che lui indica come “avversari a cui dedicare, se necessario, un anno intero per farli fuori”. Rocco Casalino solleva, però, un velo ipocrita su una questione di fondamentale importanza che i ministri, quasi tutti i ministri dei governi che si sono succeduti negli ultimi sette anni, hanno retoricamente evitato di affrontare. Nonostante sia la questione che ha fatto dolcemente naufragare tanti progetti di cambiamento di un Paese che di cambiamenti ha bisogno come il pane.

Ha torto, dunque, il portavoce perché, ovviamente, i tecnici del ministero dell’Economia e della Ragioneria Generale dello Stato non sono da “cacciare”, a meno che non vogliamo scardinare i principi elementari di uno Stato che è, ancora, con grandi incertezze, di diritto. Sbaglia perché utilizza linguaggi che non può permettersi chi copre cariche istituzionali nel momento in cui le istituzioni hanno già un enorme problema di credibilità.

Ha ragione, però, da vendere il portavoce del presidente del Consiglio a sollevare la foglia di fico che decine di ministri hanno fatto finta di non vedere: l’amministrazione centrale è una delle spiegazioni più potenti del motivo per il quale “in Italia tutto cambia, affinché tutto rimanga così come è”.

La questione non è, neppure, di “rematori in senso contrario”, di intenzionali volontà di mettersi di traverso o di poteri forti che cercano di rallentare e si rifiutano di “trovare i soldi”. Spesso le burocrazie centrali – che sono molto diverse per responsabilità carichi di lavoro, stipendi da quelle locali, sono, semplicemente, non abbastanza competenti. Con grandi eccezioni che proprio al Mef sono numerose e di alto livello.

In generale, però, i ministeri appaiono sguarniti delle conoscenze necessarie ad affrontare le trasformazioni di un secolo che sta cambiando la natura degli Stati. Ma anche di quelle tecniche amministrative che fanno, spesso, scrivere male persino i bandi. Non per colpa dei ministeriali che sono ridotti a questa condizione da anni di blocco del turn over, poca formazione e, soprattutto, riforme sempre incomplete che hanno introdotta poca motivazione e pochissima valutazione.

Secondo uno studio pubblicato qualche anno fa da Thomas Manfredi della Direzione Generale sulle politiche del lavoro di Oecd, sono poco più del 10% i dirigenti dei ministeri con un titolo post universitario e un quarto non ha neppure una laurea. Negli Stati Uniti, in Germania e in Francia i dottorati sono più della metà e i non laureati non esistono. È evidente che un dottorato non garantisce una capacità e, tuttavia, è evidente che un’amministrazione pubblica centrale invecchiata, sfiduciata diventa un blocco in un Paese che avrebbe molto più bisogno di migliorare la qualità della spesa pubblica, piuttosto che la sua quantità.

Continuare ad investire in politiche nuove con un’amministrazione vecchia vuol dire continuare a inciampare nei dettagli (amministrativi) dietro ai quali si cela il diavolo che costringe questo Paese a rimanere fermo. In fondo, basterebbe dedicare il proprio capitale politico nel far passare una riforma di buon senso che equipari la dirigenza pubblica a quello privata o che, perlomeno, non inchiodi le istituzioni all’impossibilità di destinare altrove i dirigenti che falliscano gli obiettivi che spetta alla politica determinare e di premiare chi, nonostante tutto, riesce a superare le aspettative.

Casalino si è permesso di dire in maniera assai ruvida ciò che molti competenti pensano. Sarebbe una provocazione inutile se non la trasformassimo in una vera riforma della dirigenza pubblica che precede tutte le altre.

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