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Da tempo il progresso dell’integrazione europea contava sul Consiglio di giugno. Ma sono sopravvenuti problemi che rischiano di insterilire il vertice, soprattutto sui temi economico-finanziari. La questione migratoria, ridiventata emergenza divisiva; i dazi di Trump; l’aggravarsi dello stallo dell’accordo Brexit; il timore di atteggiamenti antieuropei del nuovo governo italiano; le tensioni nella maggioranza politica tedesca e il sospetto di debolezza della sua leadership; le ribadite divisioni nell’Ue originate dai Paesi di Visegrad e dal gruppo del recente manifesto degli Otto a guida olandese.

Ha cercato di fronteggiare i problemi l’alleanza fra i capi di Stato e di governo di Francia e Germania che martedì 19 ha dato luogo alla Dichiarazione di Meseberg che delinea un percorso condiviso per approfondire l’Unione e l’eurozona. Ma la leadership franco-tedesca dell’Ue appare contestata. In un vertice informale domenica 24 si è anche cercato di affrontare con anticipo le questioni migratorie. Rimane però diffuso il pessimismo circa i risultati del Consiglio. Fra l’altro, il tema migrazioni potrebbe spiazzare i temi economico-finanziari. L’Italia soffrirebbe da un fallimento del vertice, ma vi si avvicina in posizione isolata e controversa.

I dossier economico-finanziari del vertice sono comunque ricchi: su qualche tema un passo innanzi potrebbe esserci. I dossier riguardano, innanzitutto, il bilancio dell’Unione che, oltre ad avere una nuova parte riservata all’eurozona, potrebbe impegnarsi per investimenti pubblici, per fronteggiare la disoccupazione ciclica, per armonizzare le imposte sulle imprese. Sono inoltre all’ordine del giorno cambiamenti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per renderlo più efficace nella cura e nella prevenzione di crisi delle finanze pubbliche di uno Stato membro e di istituti bancari. Al funzionamento del Mes di collegano proposte per affrontare eventuali ristrutturazioni del debito di Paesi membri in difficoltà. Un terzo fronte è quello del completamento dell’Unione Bancaria con l’avvio di un sistema europeo di assicurazione dei depositi che riduca le differenze di rischio percepite da chi sposta liquidità da un Paese all’altro dell’eurozona.

Al di là della complessità delle singole questioni, l’aspetto più controverso è la convivenza di regole che prescrivono ai singoli Stati membri di ridurre i rischi delle loro situazioni economico-finanziarie con i progetti europei per condividere parte di tali rischi: la convivenza fra disciplina decentrata e solidarietà comunitaria. Ciò è più evidente nell’unione bancaria, dove vanno ridotti i rischi dei sistemi bancari nazionali (prestiti in sofferenza e troppi titoli di Stato) per facilitare un’assicurazione europea che garantisca il rimborso dei depositi di una banca insolvente. Ma il tema della convivenza di risk reduction e risk sharing è presente in quasi tutti i dossier di approfondimento dell’integrazione dell’Ue e dell’eurozona.

La controversia che rischia di far fallire ogni accordo riguarda l’ordine con cui procedere a ridurre e condividere i rischi. Prevale infatti l’idea, ribadita più volte anche nella dichiarazione franco-tedesca di Meseberg (probabilmente per insistenza tedesca), che la riduzione (e quindi l’azione degli Stati membri per “mettere la loro casa in ordine”) debba precedere e condizionare la condivisione: la disciplina prima della solidarietà. L’assicurazione europea dei depositi, per esempio, comincerebbe solo quando tutti i Paesi hanno alleggerito i bilanci delle loro banche da prestiti e titoli troppo rischiosi. Con questa regola di precedenza la difficoltà di ridurre i rischi in tempi brevi può compromettere ogni prospettiva di condivisione. Ciò minaccia anche di inasprire i rapporti fra i Paesi, come il nostro, che sentono più viva l’esigenza di solidarietà, anche per ragioni simbolico-politiche, e ne fanno una condizione per confermare il loro “europeismo”, e i Paesi che si sentono finanziariamente più sicuri, come la Germania, che non vogliono solidarizzare con chi considerano troppo a rischio.

Senza superare questa controversia, l’avanzare dell’unità dell’Ue e dell’eurozona può incontrare ostacoli insormontabili. Non è facile immaginare se e come potrà essere superata. Si può però sostenere che essa nasconde un equivoco: una vera riduzione dei rischi è impossibile senza una loro condivisione, sicché far precedere quest’ultima dalla prima non ha senso. L’impossibilità è dovuta a due ordini di ragioni. La prima, sottolineata anche in un intervento del Presidente della BCE, è che i rischi di insolvenza dipendono dalla solidarietà con cui i creditori si attendono che le difficoltà di singoli debitori verranno affrontate. Se i creditori di una banca sanno che un fondo di assicurazione europeo rimborserà i depositanti in caso la banca sia insolvente, eviteranno di ritirare improvvisamente loro prestiti e i loro depositi per il timore, magari ingiustificato, di una sua insolvenza: ciò renderà l’insolvenza stessa meno probabile, riducendo anche il panico e il contagio dall’insolvenza di altre banche. La seconda ragione è che in un’area interdipendente come l’eurozona (e, in misura appena minore, anche l’Ue), il rischio di crisi di un Paese membro o di suoi importanti operatori economico-finanziari, è comunque condiviso dagli altri Paesi europei. Se l’Italia o una grande banca italiana non ripagassero i loro debiti, vi sarebbero gravi costi per la Germania. I rischi sono dunque già condivisi: si tratta di gestirne la condivisione in modo da migliorare la stabilità finanziaria dell’eurozona e dell’Ue.

Converrebbe all’Italia che la necessità di procedere con sufficiente contemporaneità alla riduzione e alla esplicita condivisione dei rischi risultasse più chiara. A questo fine, d’altra parte, converrebbe al nostro Paese mostrarsi più deciso e meno sulla difensiva nell’impegnarsi a ridurre i suoi rischi finanziari nella misura in cui può farlo per conto suo.

(Articolo pubblicato sul sito dell‘Ispi)

 

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