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Luna di miele finita tra Tito Boeri e governo gialloverde, se mai ci fosse stata? Forse sì o forse no, ma i segnali di una rottura ci sono tutti. L’economista della Bocconi chiamato nel dicembre 2014 dall’allora governo Renzi al vertice dell’Inps, questa mattina ha tenuto alla Camera la sua relazione annuale sull’attività dell’istituto svolta nel 2017. Occasione tradizionalmente ghiotta per scambiarsi punti di vista con il governo di turno sulla tenuta del sistema previdenziale italiano. E magari su qualche scelta di politica economica. Il dato politico è che da oggi appare ancora più difficile immaginare una piena sintonia tra l’Inps e l’esecutivo stellato.

Non che con Renzi, nonostante lo abbia indicato lui alla guida dell’istituto, il rapporto fosse idilliaco. Più volte Boeri, che rimane pur sempre un economista, ha sconfinato in giudizi su questa o quella misura, su tutti il Jobs act di renziana memoria. Con Gentiloni le cose erano andate un po’ meglio, ma ora sembra essere rimesso tutto in discussione e si sa quanto il fattore sintonia conti nei rapporti tra governo e Pubblica amministrazione.

Boeri è per esempio un grande fautore del pagamento dei contributi da parte dei migranti regolari. Scelta finanziariamente accettabile se si considerano due aspetti, al netto dell’allungamento della speranza di vita che rende più duraturo il pagamento delle pensioni.

Primo, nel 2017 l’Inps ha chiuso il bilancio con un rosso di 6,3 miliardi e una sostanziosa erosione del patrimonio di vigilanza, il cuscinetto che serve a tenere in piedi l’istituto. Allargare lo spettro della contribuzione potrebbe garantire all’Inps maggiori introiti in grado di dare manforte ai conti dell’istituto. Secondo, il precariato ha senza dubbio contribuito a ridurre il volume dei versamenti da parte degli italiani, con evidenti ripercussioni sul bilancio. Matteo Salvini però non è d’accordo e proprio per questo due giorni fa ha, un po’ stizzito, annunciato ribaltoni al vertice dell’istituto, nonostante tecnicamente il mandato di Boeri termini nel 2020.

Oggi però Boeri è tornato a cavalcare la sua proposta, affermando senza mezzi termini che così com’è il sistema pensionistico, non dura a lungo. Il nostro sistema “è in grado di reggere alla sfida della longevità, almeno sin quando si manterrà l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione. Ma non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro”. Tradotto, servono nuovi ingressi in termini di contribuzione o il banco potrebbe saltare.

Il presidente dell’Inps ha poi giocato d’anticipo, forse fiutando l’aria di tensione con Salvini, invitando il leader leghista a leggersi i numeri prima di criticare e dire che si può fare a meno dei migranti. “I dati sono la risposta migliore e non c’è modo di intimidirli. La mia risposta (a Salvini, ndr) è che i dati  parlano. Oggi presentiamo quella che è la verità che bisogna dire in Italia”.

Ma è sul terreno della Legge Fornero, sulla quale poggia l’attuale sistema italiano, che si registra il vero terreno di scontro. Per la Lega, che ha voluto la riforma della Fornero nel contratto di governo, è un vero e proprio totem. Eppure a detta di Boeri (ma non solo, contraria anche l’Europa su tutti), non si può fare. “Secondo le nostre stime, quota 100 (64 anni + 36 di contribuzione) costa fino a 20 miliardi all’anno, quota 100 con 64 anni minimi di età costa fino a 18 miliardi annui che si riducono a 16 alzando il requisito anagrafico a 65 anni”. Ma soprattutto, accorciare l’età pensionabile comporterebbe l’immediata erogazione di 750 mila pensioni in più? Non spiccioli per un istituto con 6 miliardi e passa di disavanzo.

Di sicuro Di Maio l’ha presa con filosofia ma paventando una resa dei conti. “Finché il legislativo farà il legislativo l’esecutivo farà l’esecutivo e l’Inps farà l’Inps andremo d’accordo”. Già, ma fino a quando?

Inps, prove generali di rottura Boeri-Salvini?

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