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Tonnellate e tonnellate di acqua, cibo e ossigeno serviranno a portare l’uomo su Marte (e oltre), con evidenti difficoltà tecniche e alti costi economici. L’alternativa è riuscire a realizzare un sistema chiuso di supporto vitale che riduca al minimo gli scarti, riutilizzando e riciclando risorse senza sprechi. Con scadenze piuttosto stringenti, a lavoro su questi sistemi c’è una nutrita comunità scientifica, che la scorsa settimana si è riunita a Roma per il primo workshop congiunto AgroSpazio-Melissa. Al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) si sono ritrovate per tre giorni due realtà leader nel campo dei sistemi di supporto alla presenza umana nello spazio, scambiando idee e progetti, ed interagendo con il mondo delle istituzioni e dell’industria.

AGROSPAZIO E MELISSA

A incontrarsi sono stati due tra i più ambiziosi progetti mondiali sul tema dell’agricoltura in ambiente controllato e dei sistemi di supporto vitale bio-rigenerativi. AgroSpazio è, infatti, un progetto di ricerca nel campo delle tecnologie innovative del mondo agricolo, inquadrato nell’ambito delle attività di esplorazione del Sistema solare. Nato dall’intuizione dell’azienda laziale Arescosmo, il progetto si inserisce nel settore più generale dei Bioregenerative life support systems (Blss), ed è volto allo studio di tecnologie abilitanti e attività sperimentali, con l’obiettivo di realizzare un sistema di supporto alla permanenza umana nello spazio, che consenta di trasformare l’anidride carbonica prodotta dalla respirazione degli astronauti in ossigeno, di rigenerare i liquidi e gli scarti, e soprattutto di produrre cibo in una serra destinata alla coltivazione di specie vegetali. Melissa (Micro-ecological life Support system alternative) è invece il progetto europeo che studia i sistemi di supporto vitale a ciclo chiuso. Si propone di analizzare e sviluppare le modalità per produrre cibo, acqua e ossigeno per missioni spaziali abitate in cui altrimenti queste forniture porterebbero a un costo enorme. Gestito dall’Agenzia spaziale europea (Esa), il consorzio Melissa è frutto di una partnership di organizzazioni indipendenti che comprendono università, centri di ricerca, pmi e leader del mondo industriale.

UN ESPERIMENTO POSITIVO

“Per la prima volta, due comunità diverse tra loro hanno provato a mettersi insieme”, ci ha spiegato Marco Adami, responsabile Spazio di Arescosmo. Il risultato è stato “un esperimento assolutamente positivo, poiché ha permesso di trovare una sinergia che non è stata la mera somma di due comunità, ma che ha attirato altre comunità scientifiche per offrire una visione completa e abbastanza dettaglia a livello mondiale”. Tutto questo non era facile, soprattutto considerando le differenze tra Melissa e Agrospazio. Il primo “è un progetto con più di vent’anni finanziato dall’Esa”, ha spiegato Adami. Il secondo è “un’iniziativa nata nel 2004 in Italia, che ha poi aumentato il proprio livello di importanza con sempre maggiori adesioni, anche a livello internazionale”. Se quindici anni fa si trattava di “un settore nascente, ora è diventato un problema piuttosto urgente, dati gli incalzanti programmi spaziali che puntano a portare presto l’uomo sulla Luna e su Marte”, ha aggiunto il manager.

ORA SERVE UN CAMBIO DI MARCIA

Ora dunque serve il cambio di marcia sui sistemi di supporto vitale. “Gli obiettivi sono molti vicini e occorre accelerare tutti i processi; questo è anche un problema istituzionale, poiché servono traguardi che siano catalizzatori”, ha rimarcato Adami. “Non abbiamo più 25 anni per sviluppare tali sistemi; dobbiamo mandare persone su Marte e dobbiamo partire ora, prima che la Stazione spaziale internazionale venga dismessa (nel 2028, ndr)”, ha spiegato l’astronauta dell’Esa Pedro Duque, intervenuto lo scorso venerdì all’evento di chiusura del workshop. “Il rischio – evidenziato da tanti relatori intervenuti alla tre-giorni e ribadito da Adami – è avere tanti dimostratori senza però arrivare a missioni vere e proprie”. E per evitarlo, ha aggiunto il responsabile Spazio di Arescosmo, “Agrospazio si è sempre posto l’obiettivo di uscire dalla cerchia degli specialisti”, spiegando i tanti benefici che tale settore potrebbe apportare sulla Terra.

I RITORNI A TERRA

Dall’agricoltura alla gestione dei rifiuti, fino all’energia, gli ambiti applicati dei sistemi bio-rigenerativi sono molteplici. D’altronde, il concetto è lo stesso su cui si fonda l’economia circolare: la capacità di utilizzare tutte le risorse disponibili senza sprecarle. Per una navicella spaziale, ciò significa riuscire ad essere un piccolo mondo che non consuma energia se non quella che riceve dal Sole. Per l’acqua, ad esempio, si parla di un riciclo del 99%, mentre per l’ossigeno vi è la necessità di produrlo continuamente nello stesso ambiente. Ciò vale anche sulla Terra. Il nostro Pianeta “è la dimostrazione che l’utilizzo eccessivo delle risorse rispetto a quelle disponibili non è sostenibile”, ha spiegato Adami. Nello spazio, superare tale concetto rappresenta “una necessità vitale, senza la quale sarebbe altrimenti impossibile fare esplorazione oltre la Stazione spaziale internazionale (Iss)”.

Per Christophe Lasseur dell’Esa, responsabile del progetto Melissa, “si tratta di una vera e propria rivoluzione senza la quale sarebbe irrealistico immaginare voli spaziali con equipaggio di lunga durata nei prossimi decenni. Le tecnologie applicate al progetto mirano a facilitare l’esplorazione umana del sistema solare, ma possono essere utili anche alle attuali sfide globali come il riciclaggio dei rifiuti, la fornitura di acqua e la produzione di cibo in tutto il Pianeta”.

“Oggi – aveva spiegato su Airpress Alberto Battistelli, primo ricercatore dell’Istituto di biologia agroambientale e forestale (Ibaf) del Cnr, intervenuto al workshop romano – il cibo, e molto di quanto necessario sulla Iss, è trasportato dalla terra con missioni cargo, così come sono riportati a terra i rifiuti generati. Il costo dei trasporti spaziali è alto e chi vorrà viaggiare per lunghi periodi nello spazio o abitare su basi lunari o marziane, dovrà rigenerare acqua, cibo e materiali, con processi circolari dai quali termini come fine vita o rifiuto saranno banditi”.

PUNTARE SU COOPERAZIONE ED EDUCAZIONE

Su questo, in tre giorni, si sono confrontate oltre 200 persone in rappresentanza di 18 Paesi. Tra le cifre stilistiche dell’evento, ci sono state la forte componente internazionale (con la partecipazione degli esperti della Nasa e dell’agenzia giapponese Jaxa, oltre agli europei) e un’equilibrata combinazione tra industrie terrestri e spaziali. “I sistemi di supporto vitale sono la chiave per risolvere due grandi problemi che abbiamo nello spazio”, ha spiegato nel corso della tavola rotonda conclusiva Jean-Jacques Dordain, direttore generale dell’Esa dal 2003 al 2015. Primo, il fatto che “fino ad ora, portiamo ogni chilogrammo di acqua e hardware dalla Terra, ed è una questione di tempo, dimensioni e costi”. Secondo, “il fattore tempo: quattro mesi per andare su Marte e quattro per tornare rappresentano un periodo lungo e sfidante”, ha aggiunto Dordain, spiegando che “il resto è molto semplice”. I sistemi chiusi di supporto vitale permetterebbero di superare queste problematiche. Ciò vorrebbe dire “rendere il futuro possibile”, ha detto l’ex direttore dell’Esa. Come farlo? “Con tre pilastri – ha concluso Dordain – educazione, innovazione e cooperazione”.

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