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La sindrome dell’Alitalia applicata all’Ilva. Ovvero, calma, nessuna fretta e cerchiamo di tirare l’acqua al nostro mulino. E pazienza se nel frattempo i soldi in cassa finiscono o peggio, qualcuno perde la pazienza. Questa mattina il governo ha offerto un saggio della sua strategia industriale. Prendere tempo e aspettare che dall’altra parte si giochi ancora al rialzo.

Il ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio ha incontrato questa mattina i vertici Mittal i quali hanno presentato al governo l’integrazione al loro piano industriale, che subentra in parte alla proposta originario illustrata all’ex ministro Carlo Calenda (qui l’articolo coi dettagli delle integrazioni). Sarebbe dovuto filare tutto liscio, con governo e azienda già pronti con la biro nel taschino a firmare. E invece no, nulla di tutto questo. Ancora del tempo, ancora un’attesa.

L’esecutivo “non ha fretta di assegnare l’Ilva al primo compratore che passa. Ho chiesto dei miglioramenti sugli aspetti ambientali e occupazionali e per me non sono ancora sufficienti”. Parole con cui Di Maio (cui ha dato man forte Michele Emiliano, per il quale Mittal deve fare molto di più), ha nei fatti rimandato ancora ogni decisione sull’Ilva. Sembra di rivedere l’Alitalia, la compagnia messa in vendita oltre un anno fa e ora improvvisamente ritornata nei radar dello Stato, visto che l’esecutivo pentastellato, per bocca del viceministro Armando Siri, ha appena ribadito l’intenzione di ri-nazionalizzare la compagnia.

Se tutto andrà bene se ne parlerà il prossimo anno visto che prima di rimettere Alitalia sotto il cappello dello Stato ci sono degli ostacoli da superare e nemmeno troppo agevoli. Primo, convincere l’Europa che non si stanno allestendo sottobanco aiuti di Stato (nel progetto ci sarebbe anche la Cdp, alias la stessa mano pubblica). Secondo, trovare il partner giusto e soprattutto disposto a investire in una compagnia che fino a quattro mesi fa perdeva 2 milioni al giorno. Terzo, imbastire una governance affidabile, duratura e lungimirante.

Per l’Ilva sarà lo stesso. Solo che ci sono dei rischi in più. Ogni giorno che passa Taranto brucia cassa su cassa, accelerando il dissanguamento dell’azienda. E i cittadini pugliesi ci rimettono anche in salute visto che più ritarda la cessione e più si protraggono i lavori di bonifica che Mittal ha preventivato. Solo che non può effettuarli se non è nella piena titolarità della proprietà.

Appare difficile che Di Maio butti tutto a mare, cancellando la gara che ha portato l’Ilva a un passo da Mittal. Ma certo è che questo continuo rimandare non giova all’acciaio italiano. Mittal, è bene ricordarlo, pagherà l’acciaieria 1,8 miliardi e ne investerà tra produzione e risanamento altri 2,4. Non è davvero un caso se nelle slide presentate a Di Maio stamattina ci fosse scritto in modo chiaro che per il gruppo questo “rappresenta il massimo sforzo”. Come a dire, oltre non si può andare.

Forse è anche per questo che un sindacalista esperto come Marco Bentivogli, leader della Fim-Cisl non poteva che essere indispettito dall’esito dell’incontro odierno. “Intorno all’Ilva si continua a fare campagna elettorale senza assumersi responsabilità e questo non risolve né la questione ambientale, né quella occupazionale. La democrazia non prevede monologhi, il ministro ancora oggi non ha chiarito al tavolo cosa vuole fare su Ilva, salvo poi dire in conferenza stampa che è in attesa del parere dell’avvocatura di Stato”.

“Non si può continuare a dare ragione a tutti, va bene ascoltare tutti, sta in capo alle prerogative del ministro, ma bisogna scindere ruoli e ambiti di rappresentanza e accelerare i tempi e poi soprattutto decidere, noi siamo per ambientalizzare la produzione dell’acciaio, altri al tavolo ritengono che sia comunque da chiudere, il ministro ancora una volta cerca un parere esterno per fare quello che gli compete, decidere”.

 

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