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Le divergenze palesi su ruoli ed incarichi nel prossimo Governo – in interviste, dichiarazioni stampa e “retroscena” sui principali quotidiani – non vogliono necessariamente dire che l’intesa sui programmi sia molto lontana e chi ci vorranno tempi lunghi, ove non lunghissimi, per la formazione dell’esecutivo. Spesso si litiga su poltrone, e su chi deve essere “escluso” per un’interdizione tra il teleologico ed il teologico, quando i programmi hanno già raggiunto un buon grado di convergenza e sono sul punto di fondersi.

Indicativo a riguardo l’articolo di Antonio La Spina che ha occupato gran parte della seconda pagina di Avvenire del 27 marzo. Avvenire è una voce eloquente. Ed Antonio La Spina non è solo un “professorino” di valutazione delle politiche pubbliche della Luiss, a cui si debbono importanti contributi in materia di impatto della regolamentazione. Lo conosco da anni: ha insegnato in corsi da ma coordinati alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione ed io in quelli da lui guidati all’Università di Palermo ed al Cerisdi della capitale siciliana. È da sempre uno stretto collaboratore del Centro Arrupe e della rivista Orientamenti Sociali, quindi di cultura profondamente cattolica. Ha fatto parte della segreteria regionale del PD in Sicilia ma ha anche collaborato con governi regionali di centro-destra. È stato uno stretto collaboratore di Franco Bassanini quando quest’ultimo era ministro della Funzione Pubblica. La Spina, quindi, conosce bene il Palazzo (come lo chiamava Pier Paolo Pasolini). Le sue idee su un possibile accordo tra M5S e centrodestra a trazione leghista rispecchiano quella che è una crescente scuola di pensiero.

All’indomani delle elezioni, io stesso ho scritto su IlSussidiario.net che “le forze politiche che hanno vinto le elezioni hanno l’onere di tentare di risolvere il nodo vitale” dell’aggravarsi delle differenze tra un Nord in ripresa economica ed un Sud sempre più povero. Non possono farlo come lo fece la Germania negli successivi alla caduta del Muro di Berlino sia perché lo stesso Centro-Nord, pur se ha una produttività significativamente superiore a quella del Mezzogiorno, non ha livelli pari a quella dei Länder occidentali tedeschi che permisero forti trasferimenti a quelli orientali, sia perché ci sono maggiori vincoli europei, sia infine perché la nostra finanza pubblica e il nostro debito pubblico rendono difficili finanziamenti di rilievo al Sud. Se il binomio “Mezzogiorno-povertà” – come documentò circa trent’anni fa il Rapporto Amato, commissionato dalle Commissioni Bilancio del Parlamento – se non diventa centro unificante della politica economica e sociale del Paese, il divario porterà a una spaccatura politica dell’Italia ancora più grave di quella già mostrata dai risultati delle elezioni del 4 marzo. Ora come non mai è necessario un governo che abbia come obiettivo principale una nuova “unificazione nazionale” economica e sociale. Non che le Regioni, le amministrazioni pubbliche e la società civile del Mezzogiorno non abbiano responsabilità nel divario tra le due parti del Paese.

Il programma può essere costruito – forse in parte lo è già – su quattro pilastri: sviluppo (con alto contenuto occupazionale) specialmente del Sud e delle Isole, sicurezza (e lotta alla criminalità), regolamentazione efficace dell’immigrazione, e rispetto delle regole europee in materia di consolidamento della finanza pubblica.

Cominciamo da quest’ultimo punto, il più ostico ed il meno trattato sulla stampa. Per uscire dalla trappola del debito (che frena la crescita e, quindi, l’occupazione) occorre un impegno sia nazionale sia europeo. Sotto il profilo nazionale, la strategia deve essere adottata e concordata dall’intera classe politica dirigente, non solo della maggioranza che sosterrà l’esecutivo. Sarebbe anzitutto appropriato costituire, per legge, una commissione – la cui presidenza dovrebbe essere affidata a un esponente autorevole dell’opposizione composta da rappresentanti delle forze politiche e delle istituzioni con l’obiettivo di formulare proposte specifiche per portare il debito a meno del 100% del pil entro la fine della prossima legislatura. E monitorarne l’attuazione. Una proposta in questa direzione è stata formulata in seno alla Luiss School of Government.

Sotto il profilo europeo, le risorse – in gran misura non utilizzate – del meccanismo europeo di stabilità (e dell’eventuale Fondo monetario europeo) dovrebbero essere impiegate per facilitare la riduzione del debito degli Stati dell’Unione più indebitati. Lo si può fare con forme di garanzia e di riscatto che non comportano quelle mutualizzazione del debito considerate impraticabili per alcuni membri della Ue. È in ogni caso utile ricordare che tali forme di garanzia e riscatto sono state adottate con successo nella Repubblica federale tedesca, dopo la riunificazione, per risolvere problemi finanziari dei Länder orientali. A questi impegni dovrebbero corrispondere una gamma di misure definite nel dettaglio dalla Commissione europea. Tra queste, una potenzialmente significativa è la cosiddetta “conversione della rendita”. L’Italia ne ha già esperienza: venne attuata, nel 1906, con grande perizia tecnica (e straordinaria rapidità) per sostituire titoli di Stato in scadenza con altri a tassi inferiori. Oggi si dovrebbero sostituire titoli pluriennali ancora in circolazione emessi negli anni Novanta (quando i tassi erano molto elevati) con titoli a tassi correnti. I detentori dei primi, infatti, hanno avuto un grande vantaggio dall’ingresso dell’Italia nella moneta unica e dal quantitave easing, grazie al conseguente forte ribasso dei tassi. Occorre poi destinare al ripiano del debito varie forme di entrare straordinarie: quelle derivanti dalla voluntary disclosure (la collaborazione volontaria per regolarizzare la propria posizione fiscale), condoni ancora in corso, parte delle privatizzazioni del capitalismo municipale e regionale o i proventi, infine, da grandi imprese a partecipazione statale. Nel contempo, occorre una rigorosa e continuativa spending review seguendo protocolli e canoni di analisi costi benefici ormai attuati in numerosi Stati occidentali. Sono articolate nel volume “La Buona Spesa – dalle opere pubbliche alla spending review”, edito dal centro studi ImpresaLavoro ed acquistabile agevolmente tramite Amazon.

Per quanto riguarda lo sviluppo, uno studio sulla scarsa produttività in Italia curato da dodici economisti della Banca d’Italia (Bank of Italy Occasional Paper No. 422) non solo sottolinea il divario di produttività tra Mezzogiorno e resto del Paese, ma conclude che le normative degli ultimi anni su mercati dei prodotti e del lavoro offrono qualche “barlume di speranza”, mentre “le misure relative ad altri fattori determinanti per la produttività non hanno avuto sino ad ora efficacia”. Quindi sono quanto mai urgenti misure per rafforzare le produttività, anche tramite investimenti pubblici in infrastrutture modulati secondo le “osservazioni e proposte” presentate a governo e Parlamento dal Cnel alcuni anni fa (e disponibili sul sito dell’organo).

Le misure di contrasto alla povertà possono essere una declinazione di quanto già iniziato negli ultimi anni con la normativa sul reddito di inclusione, come documentato da La Spina. Anche in materia di sicurezza, La Spina indica le linee generali, ma aggiungerei la regola “Tolleranza Zero” che ha cambiato sicurezza e qualità della vita a New York.

elezioni, programma

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