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Ogni volta che muore una persona amica, con la quale si sono condivise battaglie e passioni, se ne va una parte della nostra vita e siamo costretti a bilanci a volte dolorosi a volte invece magnifici. La scorsa settimana è morta Clara Sereni e il consuntivo del tempo passato assieme è straordinario: la sua testardaggine, la sua bellissima scrittura, il suo amore per le persone sono tra i motivi che mi danno la forza di alzarmi ogni mattina, il coraggio di affrontare l’enormità delle disuguaglianze che, soprattutto in quest’ultimo periodo, ci sovrastano.

Ho conosciuto Clara alla fine degli anni ’80 insieme con Giulio Cattaneo, grande critico letterario,ingiustamente dimenticato, con Rosetta Rota Flaiano, la vedova di Ennio e con Ennio De Concini, premio oscar per la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana”. Cosa avevano in comune queste straordinarie persone così diverse fra di loro? Un figlio o una figlia handicappata. Lo raccontarono poi insieme in un libro collettivo,dal titolo “Mi riguarda”uscito proprio nel luglio di 24 anni fa, uno degli ultimi frutti positivi della “stagione dei diritti” nata dalla rivoluzione del’68.

Clara era raffinata scrittrice e appassionata militante, alla ricerca di briciole di gioia, nonostante un dolore invincibile fosse il suo compagno da anni. Era cosciente di essere una privilegiata nell’affrontare la sua condizione di mamma di una persona con gravi disabilità, privilegiata perché in possesso di strumenti culturali, economici e politici per affrontare un problema enorme che altri non sarebbero riusciti e non riescono ad affrontare, (e i troppi, terribili fatti di cronaca di genitori che uccidono i propri figli malati ne fanno fede).

Lo ha fatto per anni, pensando a suo figlio e pure, generosamente, ai figli degli altri, attraverso la politica (che non ha compreso il suo valore, soprattutto il mondo della sinistra nel quale ha militato per scelta e tradizione familiare, e che l’ha fatta arrivare appena a fare il vicesindaco di Perugia, quando sarebbe potuta essere un magnifico ministro del welfare).

“Scomodi al cuore e alla regione, questi figli” così si legge in “Mi riguarda” che fa parte integrante dei suoi straordinari scritti (tutti attuali e notevoli, da Casalinghitudine a Via Ripetta 155, l’ultimo, del 2015) nei quali, con la leggerezza di chi sa, descrive la quotidianità delle 2 milioni e mezzo di famiglie italiane con un disabile grave al loro interno.

Le famiglie, questa risorsa straordinaria, questa salvezza e questo inferno, le famiglie utilizzate dallo Stato per tamponare le sue mancanze, le famiglie dove le madri “non possono mai riposarsi del tutto” e per loro aveva costruito la Città del Sole, un modello di comunità che poteva ospitare i ragazzi garantendo un “tempo di tregua”a genitori consumati dal peso della fatica, fisica e mentale, che la relazione quotidiana con questi figli pretende.

Ci siamo incontrate l’ultima volta l’anno scorso “sono stanca, mi ritiro in un istituto per anziani” lei che è invece morta giovane, a 71 anni. I caregiver, parola elegante per definire i familiari-assistenti, coloro che non conoscono la possibilità di “andare in vacanza” ma nemmeno, a volte, dal parrucchiere e meno che mai di fare all’amore col proprio partner e che hanno un rischio di mortalità del 63% in più di noi comuni e fortunati cittadini (da una ricerca dell’università di Pittsburgh).
La Città del Sole intendeva dare una piccola risposta a questo grande disagio: quando il mondo della politica e delle istituzioni non l’ha più sostenuta, Clara ha cominciato a morire.

Solo un uomo si è ricordato di questa voce: il 1° aprile 2016, Sergio Mattarella l’ha voluta come relatrice in occasione della giornata nazionale dedicata alle persone con disabilità intellettiva. Non mi stancherò mai di ripetere come il Capo dello Stato sia sinceramente vicino al mondo della disabilità: lo ha dimostrato e continua a dimostrarlo attraverso gesti concreti che assumono il peso specifico di modelli da seguire e di indicazioni precise.

Anche quest’anno, il prossimo 21 settembre, Castelporziano ospiterà una giornata di festa per tante famiglie e tante associazioni, che avranno così il rango di ospiti speciali, tanto quanto Capi di Stato e personalità straniere. Ma tutto l’anno la tenuta presidenziale è dedicata a questo mondo, grazie a una scelta di campo, completamente diversa dall’uso che se ne faceva nel passato.

Sempre nel 2016, Clara mi scrisse una lettera in occasione della presentazione al Senato della legge sul “Dopo di Noi”, un primo passo per fornire risposte economicamente concrete a tutte queste famiglie: pochi spiccioli certo, che però hanno segnato l’inizio di un percorso che non va sottovalutato. Ci aspettano, nel nome di Chiara, tante altre battaglie legislative, politiche, sociali da combattere, per riconoscere la dignità a queste famiglie: perché non basta inventarsi definizioni o ministeri nuovi di zecca, ma è necessario agire, immediatamente: “E’difficile, ma si può, si deve… Non brancoliamo nel buio, non siamo soli, con altre e altri possiamo costruire un mondo migliore: migliore per TUTTI e non solo per i disabili che ne sono la cartina di tornasole. Senza di loro, senza la loro presenza attiva, il mondo è monco, gli manca un pezzo e questo è un problema, per tutte e per tutti”.

Questa è l’ultima lettera che Clara mi ha scritto, in occasione dell’incontro al Senato durante il quale volle partecipare solo attraverso la sua scrittura: amica mia, continueremo ad essere “Scomode al cuore e alla ragione”.

Lettera di Clara Sereni inviata a Paola Severini, letta in occasione del convegno sulla legge sul Dopo di Noi, tenutosi presso il Senato della Repubblica il 15 aprile 2016.

Care amiche e amici,

purtroppo ho qualche malanno, e non posso essere presente a questo incontro, che certo mi avrebbe dato spunti di conoscenza e riflessione. Devo però alla cortesia affettuosa di Paola Severini la possibilità di essere con voi con un piccolo contributo, spero di qualche utilità.

Come madre di un figlio schizofrenico, conosco bene la fatica di chi ha a cuore una persona con problemi, e il pensiero del dopo di me, del dopo di noi è un tarlo che neanche la migliore legge del mondo riuscirà mai a cancellare del tutto. Perché il mondo non sta lì pronto ad accogliere le persone in difficoltà: non siamo capaci di accettare i migranti, figuriamoci quante sofferenze, quanti inciampi, quanti ostacoli possono frapporsi a questi “migranti dell’anima”, tanto più difficili da tollerare perché fanno risuonare all’interno di ciascuno le note della diversità, dell’emarginazione, del dolore.

È per tutto questo che non possiamo mai riposarci del tutto, che non possiamo smettere di lavorare perché il mondo diventi un po’ migliore di quel che è, e perché i nostri famigliari siano messi nelle condizioni migliori per affrontarlo. È un ragionamento che porta al tema di oggi ma anche a un tema ancora più importante, che precede e condiziona il dopo di noi. Parlo del durante noi, cioè dell’impresa – forse la più difficile – di dare a ciascuno il massimo di autonomia possibile. Si parla spesso, e con buona ragione, del diritto delle famiglie ad essere sostenute, ad avere occasioni e momenti di sollievo, insomma a liberarsi almeno ogni tanto dall’assillo e dall’obbligo della cura. Non si parla altrettanto, invece, del diritto che i figli hanno – come tutti i figli – di liberarsi di genitori e famiglia, per vivere una vita adulta e degna di essere vissuta. Sono persone fragili, spesso non in grado di assumersi una decisione così difficile come quella di tagliare il cordone ombelicale; dunque siamo noi a doverla assumere, ad imporla: senza mai la certezza che sia la cosa migliore da fare, e con l’ansia di imporre la rinuncia almeno ad una parte della protezione che esercitiamo nei loro confronti. E però è l’unica strada: aiutarli a costruire un futuro ora, mentre ancora abbiamo la lucidità e la forza per portare avanti un progetto. La vita non aspetta, e neanche lasciti miliardari possono garantire le relazioni sociali multiple e variegate di cui tutti abbiamo bisogno, e qualcuno di più. La rete che tutti ci tiene a galla è fatta sì di protezione di risorse economiche, ma soprattutto delle relazioni che ci funzionano da specchio, che ci restituiscono l’immagine quanto più possibile positiva di quel che siamo.

Permettetemi ancora una sottolineatura. Nella mia attività con la Fondazione “La città del sole”, che costruisce progetti di vita per persone con problemi mentali gravi e gravissimi, mi è capitato non poche volte di scontrarmi con la volontà delle famiglie di non impegnare risorse dedicate ad attività di oggi per accantonare fondi per il loro futuro. E spesso si parla di pensione e indennità di accompagnamento, cioè di soldi che sono, ad ogni effetto, proprietà della persona in difficoltà. E’ qualcosa che capisco, ma che non posso condividere. Penso che sia più importante un’andata in pizzeria, o una vacanza, o un’altra qualsiasi attività ricreativa condivisa con altri, rispetto a un isolamento che può essere ed apparire dorato, ma che isolamento resta. Un isolamento che può forse, e non è detto, preservarli da qualche sofferenza, ma che di sicuro impedisce e castra le possibilità di una vita il più possibile ricca e piena, cui tutte e tutti abbiamo diritto. Nessuno escluso.

Con i miei migliori di buona vita a tutti.

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Di Paola Severini

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