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Nell’ottobre 2015 l’European Stability Initiative, think tank di Berlino con sedi anche a Vienna, Bruxelles e Istanbul, formulava in un documento la sua proposta per alleggerire il flusso di rifugiati diretti in Europa: da quella proposta sarebbe nato, pochi mesi dopo, l’accordo tra Unione europea e Turchia per la gestione dell’emergenza migranti. Nel 2016 l’Istituto Affari Internazionali di Roma contribuiva alla stesura della Strategia globale dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune, cha ha poi dato vita, lo scorso dicembre, alla cosiddetta “cooperazione strutturata permanente” (o Pesco), primo passo verso una difesa europea. Ed è ancora in corso il dibattito, sempre in ambito Ue, sulla tanto richiesta riforma dell’eurozona: a promuoverlo e ad alimentarlo – anche con un recente pacchetto di proposte concrete rivolto ai Vertici europei – gli illustri economisti di Bruegel, noto istituto di Bruxelles specializzato in economia.

Questo fanno i think tank, serbatoi di pensiero, o pensatoi, comunque si voglia tradurre l’espressione. È il loro ruolo più antico, e il più importante: mettere le proprie idee a servizio dei decisori politici, orientarne il lavoro, fornire loro gli strumenti e le conoscenze per prendere provvedimenti su temi chiave. Il tutto a partire dallo studio e dalla ricerca sul campo, oltre che dall’interazione costante con varie e diverse realtà: insieme alle istituzioni, le università, la società civile, il mondo imprenditoriale.

È un ruolo importante soprattutto nel contesto europeo, dove spesso la classe politica non ha tempo né modo di fare, da sola, ricerca indipendente di lungo respiro. E dove, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, è meno diffuso il sistema delle “revolving doors”, le cosiddette porte girevoli che introducono i ricercatori al mondo della politica, spostandoli dalle scrivanie dei think tank ai tavoli decisionali, per poi ritornare a fare ricerca nei “pensatoi”.

Eppure – a dispetto della sua complessità – questo ruolo è anche il meno tangibile, misurabile, percepibile dall’opinione pubblica.

THINK TANK E OPINIONE PUBBLICA

I think tank non sono nati per comunicare con il grande pubblico, né per far conoscere la propria attività ai non addetti ai lavori. C’è chi ancora non saprebbe dire cosa un think tank sia, e chi lo sa non necessariamente lega il suo lavoro alle decisioni politiche – nazionali e non – di cui ha notizia. Qualcosa è cambiato negli ultimi anni, quando gli istituti di ricerca hanno preso a guadagnare una discreta fama anche presso il grande pubblico. Ma non per il loro classico ruolo di “pensatoi”.

L’accesso continuo e senza filtri a notizie da tutto il mondo, la moltiplicazione delle fonti e quindi delle informazioni da verificare ha chiamato il settore della ricerca a ricoprire un nuovo ruolo. Chi meglio di un esperto, di uno studioso della politica estera, può aiutare a spiegare i cambiamenti in atto nello scacchiere internazionale dandone una giusta interpretazione? Chi può fornire ai meno informati gli strumenti per distinguere notizie vere da fake news e irrazionalismi da post-verità?

Da elitari pensatori i ricercatori dei think tank diventano oggi degli intermediari, molto più vicini ai media e alla gente. Seduti al fianco dei giornalisti in tv, consultati dalla stampa, a volte direttamente dal singolo lettore, che di loro si serve per inquadrare i fatti nel loro contesto. Sono produttori di “senso”, fornitori di “informazioni ragionate” in un mondo in cui la quantità di notizie a disposizione sembra essere inversamente proporzionale alla profondità della riflessione che le accompagna.

Il tutto senza abbandonare le altre diverse declinazioni dell’attività di “thinker”: dai contributi forniti alle audizioni parlamentari alla stesura di testi di riferimento per la politica, alla collaborazione costante con analisti e istituti di altri Paesi.

Ricerca e comunicazione restano due cose diverse
Questo molteplicità di ruoli, questa responsabilità acquisita verso un pubblico più vasto e diversificato, impone ai think tank e ai loro ricercatori di comunicare di più e di comunicarsi meglio. Di prevedere linguaggi diversi, a seconda che il destinatario sia la classe dirigente del Paese o un’opinione pubblica sempre più attenta alle questioni internazionali. In quest’ultimo caso, di comunicare in modo più semplice e diretto.

Ma non significhi questo snaturare i think tank, dirottarli su un terreno che non è il loro. L’avvicinamento al pubblico non deve allontanare dalla ricerca, quella pura e orientata alla definizione di strategie politiche. Gli istituti non devono sostituirsi ai media, né gli analisti ai giornalisti. Ma possono, e a questo punto devono, affiancarli nel tentativo di ridare valore a quel prezioso strumento che è la competenza, nel ridare alle persone punti di riferimento basati sull’affidabilità e la credibilità.

LA NECESSITÀ DI ESSERE INDIPENDENTI

Un requisito è alla base di ciascuno di questi ruoli: l’indipendenza, politica e finanziaria. Facile a dirsi, meno a farsi, specialmente in un momento storico in cui i finanziamenti pubblici vengono costantemente tagliati e il mondo privato tende a prediligere le singole consulenze alla ricerca più ampia.

Forse l’indipendenza assoluta non esiste, anche semplicemente per quanto riguarda la scelta dei temi di ricerca. Il fatto stesso che molti studi si concentrino su materie molto specifiche – nell’interesse di chi le commissiona – delimitando l’attività del ricercatore, dà la misura di quanto il lavoro del think tank sia più spesso subordinato che autonomo. Anche i finanziamenti europei – parte sostanziale del bilancio di molti centri studi – sono di frequente legati a progetti fin troppo specifici e circoscritti.

Eppure è fondamentale che queste fabbriche di idee – oltre 6.500 nel mondo, più di 1.700 in Europa – siano libere di espandere i propri studi il più possibile, di produrre ricerca sui temi che sentono più urgenti e di farlo senza vincoli né secondi fini. Senza integrità e senza indipendenza i think tank non sono più think tank, e se non lo sono non riescono più efficacemente a contrastare gli stereotipi, le fake news e il più generale disorientamento intellettuale e politico delle società.

 

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