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Il prossimo 4 marzo non si voterà solo per le politiche, ma in due Regioni chiavi dell’Italia: il Lazio e la Lombardia. Alle spalle dei relativi candidati, storie completamente diverse. La prima governata, negli ultimi cinque anni, da una Giunta di sinistra, con uno schieramento che non corrisponde ai suoi equilibri nazionali. La seconda in forte continuità con una più lunga esperienza politica: Roberto Formigoni, che è rimasto presidente per ben 13 anni (dal 2000 al 2013), quindi Roberto Maroni, il quale decidendo di non ripresentare la sua candidatura ha aperto la strada ad Attilio Fontana. Anch’egli esponente della Lega. Nel Lazio, invece, si ripresenta Nicola Zingaretti, che ha presieduto la Regione nei cinque anni appena terminati, dopo aver sostituito Renata Polverini. Questo secondo test non avrà conseguenze solo locali. A capo di una coalizione di sinistra–centro, dato l’appoggio ottenuto da “Liberi e Uguali”, il suo eventuale successo è destinato ad aprire più di un problema nel partito di Matteo Renzi, e prospettare una possibile alternativa.

Fin qui gli aspetti di bottega: vale a dire il discorso, per la verità poco appassionate, sui soli equilibri politici futuri. L’aspetto più interessante riguarda, invece, il diverso retroterra economico e sociale. Al nord una forte crescita economica. Al centro, il languore di una lunga crisi. Per avere un’idea di quanto siano profonde le differenze, basta guardare ai dati della crescita del Pil. Negli ultimi quattro anni (2013-16) la Lombardia ha messo a segno una crescita media annua superiore dello 0,2 per cento al dato nazionale. Nel Lazio, invece, si è registrato l’opposto: con una caduta, pari in media allo 0,4 per cento. La cosa è ancor più significativa se si considera che tra il 2000 ed il 2007 si era verificato l’opposto. Contro una crescita media italiana pari a 8,5 punti in termini reali, la Lombardia aveva visto crescere il suo reddito del 9,5 per cento. Mentre nel Lazio l’incremento era stato del 14,9 per cento. A quanto sembra i dati dell’Istat dimostrano che, al nord, gli animals spirits si sono risvegliati; mentre nel centro sono caduti in un profondo letargo.

Non è l’unico dato preoccupante. Milano sta vivendo una stagione di grande successo. Al suo risveglio economico ha fatto seguito uno straordinario dinamismo culturale che colloca la città ai vertici delle grandi capitali della Mittle Europa. Nulla da invidiare con Parigi, Vienna o Berlino. Roma, invece, strappa le prime pagine dei grandi giornali internazionali per il cumulo di immondizie che fanno da contorno a quei monumenti che sono patrimonio dell’intera umanità. Una global city da un lato, per usare una terminologia oggi di moda, contro una visione da “strapaese” alle prese con una quotidianità impossibile da dominare. Non sorprende, quindi, la fuga dei grandi centri direzionali (Unicredit) o di produzione (Sky) verso luoghi più consoni alle proprie caratteristiche. Mentre il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, è costretto ad inseguire la prima cittadina, nella speranza di poter predisporre un’indispensabile piano d’emergenza per la Capitale.

Non sapremo dire se queste considerazioni influiranno sulla campagna elettorale. Quel che sembra più certo è che in Lombardia dovrà prevalere la continuità; nel Lazio, invece, sarà necessario un profondo cambiamento. Esso è motivato dai due modelli contrapposti. Al nord prevale una politica essenzialmente calibrata sulle potenzialità del mercato. Caratterizzata cioè da un basso prelievo fiscale, nonostante il reddito pro-capite sia più alto; da una struttura burocratica più leggera in grado di programmare al meglio le proprie risorse; da una disponibilità di infrastrutture – lo si è visto nella polemica sull’Ema a proposito di Amsterdam – che la Regione Lazio è lungi dal possedere. Basti pensare al ritardo biblico nella realizzazione dell’autostrada Roma–Latina. Primo progetto nel 2001. Ancora oggi, non è stata posata una pietra. E nel programma nella sinistra già si pensa a “studiare alternative e soluzioni diverse per l’ingresso della futura arteria autostradale a Roma” (Programma di Zingaretti).

La scelta del Lazio, almeno nel programma della sinistra, rimane quella del dirigismo. Una struttura amministrativa che si occupa di tutto. Che si sostituisce alla voglia di fare della comunità, nella presunzione di poter fare bene e meglio. Nella vana ricerca di giungere ad una quadratura del cerchio, l’unico risultato certificabile – al di là delle intenzioni di cui è lastricata la strada dell’inferno – è quello di una spesa regionale debordante. Nel Lazio la spesa regionale pro-capite è pari 4.572 euro. In Lombardia di 2.616 euro. Poco più della metà. Non vi sarebbe alcunché da eccepire se le maggiori risorse fossero date da una maggiore crescita del benessere complessivo. Ma purtroppo non è così. A far la parte del leone sono le tasse da un lato, il debito dall’altro. Le prime (tasse non destinate alla copertura delle spese per la sanità) sono pari a 497 euro (bilancio 2017) nel Lazio, quelle lombarde a 175. Basti pensare all’aliquota massima delle addizionali sull’irpef che in Lombardia è pari all’1,74 per cento (pari a quella minima nel Lazio – 1,73 per cento) mentre nel Lazio è del 3,33 per cento.

Il capitolo debito è un altro elemento di squilibrio. Fisiologico quello lombardo, abnorme quello laziale, che ha raggiunto nel 2018 la cifra di oltre 12 miliardi. Che sommato a quello di Roma, ancora maggiore, dà idea dei limiti intrinseci ad un modello che si basa sulla filosofia dello “spendi e tassa”. Questo è quindi il discrimine. Spetterà agli elettori valutane le relative implicazioni. Saranno chiamati a sciegliere i componenti delle rispettive Giunte. Ma quel responso avrà anche un valore nazionale.

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