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Non alla vigilia, ma addirittura a poche ore dall’inizio del giorno cruciale per Theresa May, la clamorosa sconfitta dei conservatori era data per certa. Invece il dibattito in Parlamento sul Brexit Bill, la legge che punta a sostituire tutta la legislazione europea con leggi britanniche in vista dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, non ha portato alla sconfitta del Governo e contro ogni previsione. La legge ieri è tornata ai Comuni con ben 15 emendamenti votati dalla Camera dei Lord. Le minacce alla vigilia del voto raccontavano di una consistente pattuglia di deputati conservatori pro-Ue che aveva minacciato di votare a favore delle modifiche e pertanto contro la strategia del primo ministro sulla Brexit. Ma una ribellione troppo “vistosa” nei ranghi Tory sarebbe stata davvero controproducente al punto da indebolire e inasprire lo scontro interno non solo al partito, ma al Parlamento.

Eppure l’esito del voto ha consegnato al parlamento inglese un maggiore controllo della Brexit nel caso in cui non si riuscisse a siglare un accordo: concessioni chiave in drammatiche conversazioni dell’ultimo minuto con i ribelli pro-Europa sono state il leitmotiv di tutto il 12 giugno inglese. Ma il vero colpo duro per il primo ministro è arrivato quando alle 7 di martedì, quando Theresa May ha ricevuto la lettera di dimissioni del ministro Philip Lee perché, come ha dichiarato egli stesso, “il governo trascura la sovranità parlamentare nel suo approccio alla Brexit”.
Iniziata così la giornata di martedì sembrava destinata a passare alla storia come la disfatta della Brexit, e invece i “ribelli” del parlamento sono stati persuasi a non sfidare il governo in momento così delicato. Sarebbe stato troppo da irresponsabili, come li ha ammoniti Robert Bucklan, Solicitor General per Inghilterra e Galles. Intanto David Davis è su tutte le furie, come del resto da giorni. Nella giornata di ieri non ha fatto che ripetere che, “non si dovrebbe fare nulla per legare le mani del governo nei suoi negoziati con Bruxelles o per riscrivere la Costituzione del Regno Unito nel tentativo di arrestare la Brexit”.

E allora la vittoria di 324 a 298 contro l’emendamento sul “voto significativo”, il più importante dei 15 e quindi il più pericoloso per il Governo ha significato per la May tornare al numero 10 sorridente. Dal canto loro i “ribelli”, come li ha ormai battezzati la stampa, adesso si sentono forti del fatto che la Brexit non sarà possibile senza un voto ai Comuni. Fonti del governo, comunque, ci hanno tenuto a far sapere ai media che “non c’è stata alcuna concessione” e che i dettagli dell’accordo saranno ultimati solo lunedì, quando si tornerà alla Camera dei Lord: un lato o l’altro della barricata è destinato a rimanere deluso.

In sostanza i Lord hanno concordato che spetta ai deputati l’ultima parola su come abbandonare l’Unione europea, stabilendo la scadenza del 30 novembre entro la quale Londra dovrebbe raggiungere l’intesa con Bruxelles. Dopo quella data il governo dovrebbe seguire solo le indicazioni del Parlamento, in tal senso l’emendamento avrebbe tolto potere all’Esecutivo dandolo ai deputati, che, in teoria, potrebbero anche optare per un secondo referendum sulla Brexit. Una prospettiva inaccettabile per May e giudicata “del tutto incostituzionale” da Downing Street, ma anche da gran parte del popolazione. Jacob Rees-Mogg, esponente di spicco dei conservatori e fermo Brexiteer, ci ha tenuto a sottolineare che la concessione potrebbe, in realtà, rendere il no-deal molto più probabile perché qualsiasi voto non sarebbe vincolante per il Parlamento, e non c’è alcun meccanismo in atto per come il governo dovrebbe rispondere. E che il governo, comunque, anche se non tutti i giornali lo fanno presente, ha vinto una serie di voti ribaltando gli emendamenti di Lord, tra cui quello che avrebbe rimosso la data della “uscita” -29 marzo 2019 – dal testo del disegno di legge. La giornata che avrebbe potuto decretare la fine del governo Tory si è alla fine conclusa positivamente e la sterlina si è rafforzata sia contro il dollaro che contro l’euro.

Eppure è un’altra la spada di Damocle che incombe sulle teste della maggioranza: si tratta della campagna anti-Brexit che da mesi ha messo in moto il gruppo di pressione, “Best for Uk” finanziato da Soros. Secondo il Telegraph c’è lo zampino di Best for Uk nelle dimissioni di Philip Lee, da leggere come un “avvertimento” piuttosto che in altro modo. Mentre sono in corso colloqui con un certo numero di ministri e parlamentari di May: lo scopo è arrivare ad un secondo referendum sulla Brexit capace di annullare il primo.

L’interferenza di Best For Uk sarà capace di far arenare il divorzio del secolo?

Ecco come i Tories si ricompattano sulla Brexit attorno a Theresa May

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