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Non è mai successo prima – neppure negli anni più difficili della storia repubblicana, neppure ai tempi della Corona e del Risorgimento – che in Italia, di fatto, non partisse la legislatura. Che, pronti e via, scelti i membri del Parlamento si dovesse tornare in tempi rapidissimi a nuove elezioni per l’incapacità dei partiti di trovare una qualsiasi forma di accordo e di fare un governo. Ma c’è sempre una prima volta, pare di capire: anche perché, ad eccezione del Pd – che a sua volta, però, in questi due mesi di stallo post-elettorale si è trincerato in un Aventino fatto di risentimenti e dissidi interni – sembra che nessuno, per necessità o per convenienza, voglia aderire alla sfida di un governo di tregua lanciata ieri dal Capo dello Stato (qui il commento di Roberto Arditti).

Come confermano le dichiarazioni pronunciate da numerosi esponenti politici dei cinquestelle e del centrodestra subito dopo l’appello di Sergio Mattarella, sulle cui parole non c’è stata, di fatto, neanche una nottata di riflessione. Immediatamente contestate da chi ha rilanciato l’idea del voto a luglio – l’8 o addirittura, forse, il 22, con le scuole chiuse e le città che iniziano a svuotarsi per le vacanze estive – o, al massimo, a settembre secondo quanto proposto, ad esempio, da Forza Italia. Con la conseguenza di trascinare anche il massimo garante del Paese, il presidente della Repubblica, in una crisi che rischia di non essere più soltanto politica ma istituzionale e di sistema. Fino agli ultimi passaggi critici della nostra storia – il governo di Mario Monti nel 2011 e la paralisi parlamentare che nel 2013 portò alla rielezione al Colle di Giorgio Napolitano – si era sempre osservato come alla fine, nel caso di una prolungata inerzia dei partiti, sarebbe stato il Capo dello Stato a trovare la soluzione giusta e a garantire la navigazione del Paese. Da oggi, invece, potrebbe non essere più così: le forze politiche – che paiono prepararsi a non aderire all’appello di Mattarella e a riportare l’Italia alle urne – si troverebbero senza rete di fronte a un loro nuovo cortocircuito, considerato che neppure i moniti del presidente della Repubblica funzionano più.

E intanto la Terza Repubblica – che secondo la narrazione di troppi avrebbe dovuto traghettare finalmente l’Italia verso l’atteso cambiamento – rischia di essere subito da record, con la legislatura di gran lunga più breve di sempre. Il Parlamento rimase in carica più a lungo – per 452 giorni – persino nel 1865, quando il processo di unificazione nazionale non era ancora stato portato a compimento. O anche nel 1919, dopo la fine della prima guerra mondiale e nel bel mezzo del biennio rosso. Se si guarda, invece, alla storia repubblicana, si scopre che pure nel 1992 – l’anno del tracollo della Prima Repubblica e di Tangentopoli – la legislatura durò molto di più di quanto sembra accadrà con l’attuale. 722 giorni – quasi due anni – durante i quali venne comunque varata una legge elettorale, il Mattarellum, che aveva l’obiettivo di garantire la governabilità del Paese. Stavolta, invece, sembra che non accadrà, com’è parso di capire dalle parole di ieri di Mattarella che non ha minimamente parlato della possibilità di varare un nuovo sistema al posto del Rosatellum. Forse perché ben consapevole che non vi siano le condizioni per un accordo di questo tipo tra i partiti.

Il dado comunque non è ancora tratto. Il record della legislatura più breve della storia italiana può attendere. A condizione, però, che i partiti aderiscano alla sfida lanciata dal presidente della Repubblica. Le lancette corrono: già oggi il Capo dello Stato potrebbe indicare il nome del presidente del “suo” governo neutrale.

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