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Dopo l’esplosione del nordismo e del neo-borbonismo al sud si fa ormai fatica a proporre agli italiani una storia condivisa. Figuratevi con il ‘68. Coloro che hanno partecipato, i cosiddetti reduci, spesso ne vantano la potenza rivoluzionaria, altri invece considerano quell’anno straordinario la vera fonte dei guai successivi del Paese – e non solo del nostro. Una ragione c’è. Forse più d’una, ma una soprattutto. Il ‘68 fu una vera rivoluzione mondiale. In Italia produsse un sommovimento che capirono pochi uomini politici: fondamentalmente il vecchio capo militare dei partigiani, Luigi Longo, segretario del Pci, che volle incontrare i giovani contestatori e quel personaggio straordinario che fu Aldo Moro, che continuò a riflettere sulla rivolta, maturando quelle idee che perseguì fino a che le Brigate rosse non lo catturarono e uccisero.

In ogni caso, nel ‘68 confluirono molte culture, che possiamo anche chiamare ideologie. In verità, molte ne vennero anche demolite. Nel mirino dei sessantottini finirono tutte le istituzioni autoritarie, dalla scuola, alla famiglia, alla caserma. Il ‘68 fu una grande rivoluzione sessuale che avviò la nascita del femminismo. Fu un movimento internazionalista che si nutrì di tutte le rivoluzioni dovunque esse si svilupparono, con particolare passione verso Cuba, ma soprattutto il Che, oltre che verso gli ieratici leader del Vietnam, Ho Chi Minh e il generale Giap. Questo movimento di contestazione non amò l’Unione Sovietica, alimentò e sostenne le prime avvisaglie di rivolta a est, ma si invaghì di Mao Tze-tung e della sua rivoluzione ininterrotta.

E poi ci furono altre rivoluzioni più legate alla persona e al costume, come definire “politico” il “privato”, come battersi per un’eguaglianza persino nei voti scolastici e universitari (il 18 politico), l’incontro con chi viveva in basso nella scala sociale e soprattutto gli operai. Quindi, fu una rivoluzione anti-autoritaria, che passava da Marcuse a Freud at Chomsky, ma anche a Marx, Trotsky, a Mao. Perché nessuno deve dimenticare che nel mondo, ma soprattutto in Italia, i giovani cattolici furono fra i primi a prendere la bandiera della contestazione globale.

Il ‘68 è stato quindi il più grande contenitore ideologico mai esistito, di ideologie spesso interpretate forzosamente, basti pensare al maoismo in chiave anti-autoritaria, ma anche di ideologie assai contrastanti da cui derivarono tante cose buone (una nuova idea del ruolo della donna, del lavoro nella scuola, del destino, della famiglia, della solidarietà che rompe gli schemi classisti, l’avvio di una cultura politica ecologista), ma anche cose terribili come la deriva violenta della contestazione che si raggrumò attorno al protagonismo dell’estremismo di sinistra che fece da contraltare allo stragismo di destra. Oggi si discute se lo sviluppo delle correnti violente fu una filiazione legittima del ‘68 o un suo tradimento. Difficile risolvere il dilemma se è vero, come credo, che non ci fu un’ideologia del ‘68 ma il ’68 fu uno straordinario contenitore di idee ribelli, brutte e buone.

Dal ‘68, la società di oggi ha avuto anche molta parte della sua classe dirigente, non solo e non tanto in politica, quanto nel giornalismo, nell’accademia, in gangli del potere reale. Pochi lo rivendicano. Prevale l’idea che il ‘68 abbia come marchio di infamia la violenza terroristica e molti di quelli che dopo il ‘68 hanno fatto carriera passano dal ricordo romantico alla dissociazione meno elegante. Comunque, se è vero che se il ‘68 liberò il Paese nel costume e nelle idee, non selezionò, però, una classe dirigente migliore di quella di prima.

Oggi molto si è perso di quella rivoluzione. Soprattutto, si è perso lo spirito libertario e la tentazione del rischio. Prevalgono, invece, il conformismo, anche a favore di nuovi movimenti, e il soggiacere alle regole del più forte, una sorta di ritorno in massa a quel familismo amorale che abbiamo contrastato. Assistiamo, invece, a una sorta di volontà di criminalizzazione reciproca da parte dei reduci. Anche da qui possiamo ricavare la lezione che il ’68 non ebbe un lascito morale, e, in questo senso, non fu vera rivoluzione.

Oggi siamo tornati molto indietro. Lo siamo nella scuola che è tornata socialmente selettiva. Lo siamo nella politica che si è burocratizzata ben più di quanto lo erano i partiti contro cui il ‘68 urlava nelle piazze. Si sono perse soprattutto la visione e l’utopia. “Vogliamo l’impossibile” è uno degli slogan più belli di quella stagione. A nessun giovane che occupava la propria università, a Roma, Berlino, Parigi o Nanterre o Berkeley, sarebbe venuto in mente che la propria vita era consegnata al nulla, forse all’emarginazione definitiva.

Gli sconfitti del ‘68 divennero certo testimonial non solo della degenerazione violenta delle armi, ma anche delle droghe. Ma, a differenza di oggi, l’ottimismo e l’utopia nutrivano la vita dei giovani e anche dei non giovani. Forse, questo è ciò che ci manca di più del ‘68, quella capacità di produrre sogni, di vivere in terza persona combattendo tutte le ingiustizie. Il mondo e l’Italia di oggi si sono imbozzolati in grandi paure e piccoli privilegi. Due cose che il ‘68 disprezzava.

(Articolo pubblicato sulla rivista Formiche n. 132)

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