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La sinistra è alle corde in tutta Europa. I partiti che, in diversa maniera e misura, la incarnano vengono a ripetizione bocciati dagli elettori. Negli ultimi cinque anni sono stati letteralmente falcidiati. I socialdemocratici, nonostante la batosta rimediata, annunciata peraltro dalla sconfitta lo scorso anno del candidato alla presidenza della Repubblica che ottenne appena l’11% contro l’eletto Van del Bellen espressione dei Verdi e del liberal-democratico identitario Hofer che non ce la fece per un soffio, hanno comunque retto in Austria alle elezioni legislative del 15 ottobre superando di pochi punti il 26%, ma perdendo la leadership politica che è passata nelle mani del blocco conservatore formato dai centristi di Sebastian Kurz e dai nazionalisti di Hans-Christian Strache. Ma non hanno retto in Germania qualche settimana prima dove la débacle della Spd, guidata dall’ex-presidente del Parlamento europeo Martin Schulz è stata una delle più sonore della sua storia, comunque meno drammatica nei numeri, di quella registrata in Francia dove il partito di François Hollande e Manuel Valls ha ottenuto il 10%, per non parlare la bocciatura alle presidenziali del suo candidato del quale si sono perdute le tracce, ben al di sotto della sinistra radicale di Mélenchon.

Nel Regno Unito, per quanto Theresa May stia facendo di tutto per regalare un soggiorno al n. 10 di Downing Street a Jeremy Corbin (esponente della sinistra radicale più retriva ed obsoleta d’Europa, la sconfessione praticamente del New Labour che fu di Tony Blair), il socialismo non si può dire che goda buona salute e deve appunto la sua esistenza in vita agli errori gravissimi dei conservatori (a cominciare da David Cameron) che non hanno saputo interpretare i segni del cambiamento nel Paese ed hanno assecondato demagoghi da quattro soldi cavalcando l’onda anomala della Brexit. Altro che realismo politico al quale il conservatorismo britannico si è sempre ispirato.

Nel resto d’Europa la sinistra è nelle stesse condizioni a conferma di una forte disaffezione dell’elettorato nei suoi confronti e delle sue classi dirigenti. In Olanda, i laburisti sono precipitati nel baratro raccogliendo un risibile 5,7% che fece disperare la leader Sharon Dijksma la quale definì la sconfitta liricamente: “Un graffio all’anima”. In Spagna, complice il successo iconoclasta di Podemos, la sinistra rappresentata Psoe, il partito che fu di Felipe Gonzales, José Luis Zapatero e Alfredo Pérez Rubacalba, oggi guidato da Pedro Sanchez, ha subito un colpo durissimo nelle ultime tornate elettorali che ha consentito al premier popolar-conservatore Mariano Rajoy di continuare a governare sia pure tra i marosi.

Poco più di un mese fa la stessa sorte è toccata alla sinistra norvegese, in crisi di consensi come tutta la socialdemocrazia scandinava, che ha perso le lezioni a vantaggio dei conservatori e con l’affermazione dei movimenti euroscettici, neo-nazionalisti, identitari e sovranisti. Di conseguenza, alla guida del governo di Oslo è stata riconfermata Erna Solberg. A giudizio di Ingar Johnsrud, intellettuale norvegese noto anche in Italia, intervistato da Andrea Tarquini per “La Repubblica”, ciò che è successo da quelle parti è piuttosto complesso anche se per lui “sarebbe troppo dire che la Weltanschauung, lo spirito socialdemocratico della Scandinavia è al tramonto. Però in Norvegia una destra soft che condivide al fondo i valori costitutivi del welfare solidale nordico ha saputo vincere e soprattutto ha perso una sinistra che deve ripensarsi”.

Già, come dappertutto. Dunque? I socialdemocratici, secondo lo scrittore, devono “ripensare se stessi, darsi e offrire agli elettori un nuovo progetto, nuove idee. Sembravano al voto non avere un vero progetto su come sviluppare il nocciolo duro del modello scandinavo, il welfare, non potevi vedere che progetto avessero. Per molti elettori il loro principale segnale sembrava essere ‘dobbiamo governare noi invece degli altri'”.

Storie non dissimili da altri Paesi europei dove la sinistra si sta logorando ripensandosi, ristrutturandosi, riorganizzandosi, ma non guardando oltre il proprio orto disseminato di anticaglie classiste, pregiudizi egualitari, gramigna progressista innaffiata dal solito relativismo culturale.

Gli stessi elementi che hanno determinato la caduta di Hillary Clinton seguita al ripudio, crescente nel corso del secondo mandato, del social-liberismo di Barack Obama. A conferma del fatto che, in quest’epoca, confusa e contraddittoria, l’Occidente rifiuta tutto ciò che è assimilabile alla sinistra post-ideologica al punto di non essere più riconoscibile se non come una sempre più logora e cadente tenda da campo sotto la quale vengono elaborate (si fa per dire) strategie che la condannano ad eseguire i dettami di una certa intellighentia elitaria proveniente da ristrette cerchie sociali, lontane da un sentire autenticamente popolare. Come dice il citato Johnsrud “I laburisti devono essere capaci di ascoltare ogni componente della società, una società dove la classe lavoratrice non è più composta da operai dell´industria bensí da insegnanti, accademici, infermiere, medici. Per vincere i laburisti hanno bisogno di un progetto che convinca alla maggioranza delle classi medie”.

Il problema, sospettiamo, è che la sinistra non sappia più cos’è la classe media, tanto che la ignora palesemente, fino a costringerla alla rivolta elettorale, ed avversa con arroganza e spregiudicatezza le istanze che la caratterizzano, peraltro condivise anche da altre fasce sociali, come la difesa dei più deboli rifiutando l’adozione di una tassazione equa e sostenibile e la protezione del ceto impiegatizio ed operaio dagli eccessi della globalizzazione. Ma anche l’incapacità di interpretare e salvaguardare sentimenti primari quali l’identità, il bisogno, la differenza, il merito, sono valori che la sinistra, nelle sue politiche correnti, sembra disprezzare o nella migliore delle ipotesi li guarda con indifferenza. Mentre, come si capisce bene nelle società avanzate, sono proprio questi valori e ciò che da essi discende che stanno più a cuore ai cittadini e forniscono materiale a chi è chiamato a rappresentarli. Ciò non vuol dire chiusura, isolazionismo, protezionismo. Come ha detto la leader trentanovenne della destra norvegese Sylvi Listhaug, intervistata sempre da “Repubblica” prima delle elezioni che avrebbe vinto insieme con la popolare Solberg, “Ci serve il commercio con l’Europa, per garantirci la sicurezza dell’export, ma dobbiamo anche garantire che la Norvegia conservi la sovranità nazionale. Ogni paese è meglio che risponda da solo alle sfide che affronta”.

Una lezione politica antica, ma sempre attuale

Martin Schulz e Giuliano Pisapia

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