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Sostiene Massimo D’Alema che, nel Mezzogiorno d’Italia, il PD è inesistente e tutta la lotta politica si svolge tra il centrodestra ed i 5 Stelle. Il caso delle elezioni siciliane non sembra essere stato, quindi, un’eccezione; ma solo la punta di un fenomeno più generale. Non sappiamo se, alla fine, i risultati effettivi confermeranno questa previsione. Staremo a vedere. Certo è che, se così fosse, l’immagine che abbiamo dell’Italia ne risulterebbe stravolta. Non più un Paese unito nelle sue discriminati di fondo, ma diviso in “partes tres”, come scriveva Giulio Cesare a proposito della Gallia.

In effetti la geografia politica del Paese sembra rispondere a queste caratteristiche. Nel nord prevalgono Lega e Forza Italia. I relativi rapporti non sono uniformi. A volte prevalgono i primi. In altre circostanze i secondi. Ma le più importanti regioni – Lombardia, Veneto e Liguria – sono da tempo dirette dagli esponenti di quegli schieramenti. Nel centro, la presenza del PD è prevalente. Regioni come l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche e l’Umbria sono da anni una roccaforte della sinistra. Ed è facile prevedere che in questi territori prevarrà ancora una volta il partito di Matteo Renzi. Il cambiamento maggiore si avrebbe pertanto proprio nel Mezzogiorno: terra tradizionalmente esposta alle bizze della congiuntura politica. La Campania che passa da Stefano Caldoro a Vincenzo De Luca. La Puglia da Raffaele Fitto a Nichi Vendola, prima, e poi a Michele Emiliano. La Calabria da Giuseppe Scopelliti a Mario Oliviero. Solo per citare le maggiori. Stessa alternanza per la Sicilia e la Sardegna, appena mitigata dal peso della loro autonomia.

Sembrerebbe invece che, nelle prossime elezioni, questo schema potrebbe saltare. A tutto vantaggio di quelle forze che non hanno avuto responsabilità di governo. Le ragioni? Una crescente divaricazione tra le aree più forti del Paese, da un punto di vista economico e sociale, e quelle più deboli. Tra quei territori che hanno nelle vele il vento della globalizzazione e quelli che ne subiscono i contraccolpi. Tra i winner e i looser: per riprendere un termine caro ai sociologi contemporanei.

I dati a nostra disposizione confermano che il fenomeno esiste. Il sistema economico italiano, a partire dalla grande crisi del 2007, ha subito una crescente polarizzazione. L’area dello sviluppo, in altre parole, si è progressivamente ristretta. Non è più il vecchio “triangolo industriale” che trascina gli altri vagoni, come avveniva in passato; ma una sorta di “pentagono” seppure dai contorni sfumati. Il suo vertice è collocato nel Trentino e nella Lombardia. Mentre le sue basi poggiano sul Veneto, l’Emilia Romagna e, in parte, in Toscana. Firenze e Siena, in particolare, ne restano gli ultimi avamposti. Emblematico il caso del Lazio: agli inizi del terzo millennio era la Regione che si sviluppava ad un ritmo superiore a quello di tutte le altre Regioni. Oggi è regredita fino a contendere gli ultimi posti nella classifica nazionale.

Utilizzando i dati Istat sull’andamento del Pil regionale, si può calcolare come le distanze tra le regioni del “pentagono” e il resto del Paese siano aumentate in media di oltre 6 punti percentuali. Nel 2007 il rapporto tra il reddito delle sei Regioni più forti ed il resto del Paese era pari a 0,79 a 1. Nel 2016 è salito a 0,85. Dati da valutare tenendo conto del fatto che in quelle roccaforti vive solo il 42 per cento della popolazione italiana. Si può comprendere, quindi, il disagio che ha investito la nostra società. E come questo sia il brodo di cottura per i tanti “populismi”, il cui collante principale è la rabbia collettiva.

Far fronte al crescere delle diseguaglianze non sarà facile. Esse sono la risultante del “modello di sviluppo” più recente dell’economia italiana. Il lungo gelo, che dal 2012 l’ha stretta in una morsa, ha determinato una mutazione genetica. La forte compressione della domanda interna ha tolto ossigeno alla maggior parte delle imprese italiane. Alla stretta darwiniana ne è sopravvissuto solo un nucleo più ristretto: quello più legato all’internazionalizzazione. Piccole “multinazionali tascabili” che esportano i loro prodotti con un successo straordinario, ma il cui peso specifico – circa il 20 per cento dell’intero universo – non è in grado da fare da volano all’intera economia. Sebbene l’avanzo della bilancia commerciale abbia raggiunto l’astronomica cifra di 50 miliardi di euro. Quasi il 3 per cento del Pil. Risorse che rimangono tuttavia sterilizzate ai fini di un loro possibile reimpiego produttivo.

Si spiegano così le fratture territoriali. In quel “pentagono” l’economia non si è fermata. Il benessere è addirittura cresciuto. I livelli di disoccupazione sono più bassi che altrove. Ma nel resto del Paese, la fotografia è totalmente capovolta. Ed ecco allora che la previsione di Massimo D’Alema ha un suo fondamento. Ignorarla, significa chiudere gli occhi di fronte ad uno smottamento sociale che non può non avere ricadute di carattere politico. È bene prenderne atto. Tornare con i piedi per terra, nella ricerca di una diversa politica economica che si misuri con quella realtà, che molti si sforzano di ignorare.

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Perché concordo con D'Alema sulla nuova geografia politica del Paese

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