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A giugno il Parlamento Europeo ha dato un ok preventivo alle nuove misure anti-dumping contro la concorrenza sleale cinese. Un tema di cui il neo-presidente francese Emmanuel Macron ha fatto subito un cavallo di battaglia pressando per uno “scudo” per difendere le imprese strategiche europee. Lo stesso ministro dello Sviluppo Economico italiano Carlo Calenda ha proposto un piano di monitoraggio degli investimenti extracomunitari, peraltro schierandosi contro il riconoscimento dello status di economia di mercato (Mes) alla Cina. Formiche.net ha chiesto a Beniamino Quintieri, presidente Sace, un parere sulle misure anti-dumping e lo status degli investimenti europei in Cina. Sace, che di recente ha pubblicato un rapporto sull’export italiano nel dragone, costituisce il polo dell’export e dell’internazionalizzazione del gruppo Cdp.

Presidente Quintieri, perché nell’ultimo rapporto export di Sace indicate la Cina tra le migliori mete dove investire?

Il nuovo Rapporto Export di Sace identifica 15 geografie ad alto potenziale per le esportazioni e gli investimenti italiani: un mix di mercati, sia emergenti sia avanzati, che potrà intercettare 100 miliardi di euro di nuovo export nel 2020. Tra questi abbiamo incluso anche la Cina che, in base agli indicatori di rischio, alla crescita dell’economia e della domanda interna, alle dinamiche dell’export italiano negli ultimi anni e al posizionamento competitivo rispetto ai nostri competitors, si conferma una meta su cui puntare anche negli anni a venire. Nel 2016 l’export italiano nel Paese è cresciuto del 6% circa, un ritmo sostenuto che dovrebbe continuare nei prossimi quattro anni.

Quali i settori che vedranno un crescendo degli investimenti negli anni a venire?

I settori chiave saranno quelli legati ai consumi privati (moda in primis), oltre che mezzi di trasporto e beni intermedi come i macchinari destinati all’industria agroalimentare, chimica e farmaceutica. La Cina sta andando verso un cambiamento epocale: da “fabbrica del mondo” ed economia votata all’export, punta sempre più sul rilancio dei consumi interni e sui servizi. E crediamo che questo cambiamento potrà offrire ampio spazio al Made in Italy soprattutto nei settori ambiente, sanità e sicurezza.

Cosa pensa delle misure anti-dumping in discussione a Bruxelles?

Sono un chiaro segnale di sostegno ai produttori europei, soprattutto in alcuni settori gravemente colpiti da concorrenza sleale negli anni della crisi, come l’acciaio. Al contempo, con questi nuovi provvedimenti, l’Ue aggira il problema della concessione dello status di economia di mercato alla Cina. Le misure, infatti, da ora si applicano a qualunque Paese terzo e/o settore in cui si dimostri la sovraccapacità produttiva e il dumping, a prescindere dalla “lista nera” dei Paesi non a economia di mercato.

Le nuove misure non rischiano di essere dannose per i mercati europei?

Queste nuove regole servono soprattutto a stabilire un equilibrio, in un’ottica paritaria. Nessuna economia ha l’interesse a chiudersi. La Cina, grazie ad una fascia media in crescita che domanda nuovi consumi, è un mercato fondamentale per l’Europa da cui non possiamo prescindere.

Condivide la proposta avanzata da Macron di un “Buy european act”?

La proposta, già bocciata da Bruxelles, avrebbe di fatto ristretto l’accesso agli appalti pubblici alle imprese non europee. Un provvedimento mirato soprattutto a limitare i grandi gruppi asiatici. Per alcuni settori strategici e “sensibili”, come la difesa, queste limitazioni già esistono. Appare quasi impossibile allargarle ad altri settori senza andare contro a i principi di reciprocità e apertura su cui si basa la politica commerciale europea. Di fatto accordi come il CETA e le trattative per il TTIP, ora arenate, tendono in una direzione diametralmente opposta.

E invece la posizione del Ministro Calenda sulle misure per proteggere le migliori imprese italiane?

Credo che le intenzioni del Ministro Calenda, che abbiamo visto spendersi a favore di iniziative come il CETA e il TTIP, siano ben lontane da toni di tipo protezionistico. Più semplicemente il suo è stato un invito a tutelare gli interessi delle imprese italiane e a reagire ad eventuali distorsioni o manipolazioni di mercato.

Quali sono i settori italiani più ambiti dagli investimenti cinesi?

L’Italia è una meta privilegiata per gli investimenti cinesi, basti pensare all’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina o di CDP Reti da parte di China State Grid corp. Considerando che la Cina punta sempre più al contenuto tecnologico e alla qualità, direi che Pechino è interessata soprattutto ad acquisire know how e brand noti.

Quali invece i prodotti italiani più esportati in Cina?

Nel 2016 l’Italia ha esportato in Cina € 11,07 miliardi di beni (+6,4% sul 2015). I primi dati del 2017 marcano ancor di più questa tendenza: nei primi tre mesi la crescita è stata del 33%, superando già i € 3 miliardi. Esportiamo maggiormente macchinari, che pesano per circa il 30% sul totale, seguiti dai prodotti del tessile e abbigliamento (16%) e mezzi di trasporto (11%). I prodotti del comparto alimentare rappresentano solo il 3% del nostro export in Cina, ma stanno crescendo rapidamente: negli ultimi 10 anni siamo passati dai circa € 50 milioni del 2006 ai 350 del 2016.

Quali sono gli ostacoli che incontra un investitore europeo in Cina?

Tra i principali ostacoli troviamo il sistema finanziario, non del tutto liberalizzato, che di fatto ostacola le attività in valuta estera. Altro punto debole è l’assenza di un accordo di libero scambio tra Ue e Cina, opportunità importante già colta dall’Europa con altri Paesi asiatici (Singapore, Corea del Sud e Vietnam).

Come si spiega questa enorme asimmetria negli investimenti tra Cina e UE?

Gli investimenti cinesi in Ue ammontavano a 35 miliardi di euro nel 2016, a fronte di acquisizioni Ue in Cina pari a meno di 8 miliardi di euro. Dati in linea sia con la crescita generale degli investimenti cinesi all’estero (circa $ 200 miliardi nel 2016, quasi il doppio rispetto al 2015), sia con la grande liquidità a disposizione rispetto ai Paesi europei. Mentre per le imprese europee lo spazio di manovra in Cina è più limitato. Vi sono maggiori opportunità in investimenti greenfield, rispetto a joint venture e M&A che incontrano spesso ostacoli di varia natura.

Crede che la Cina meriti il riconoscimento di status di Mes?

Di fatto la Cina non soddisfa i criteri di diritto affinché un’economia possa definirsi di mercato. L’intervento dello Stato è ancora pervasivo, con distorsioni alla concorrenza, scarsa trasparenza normativa e un sistema finanziario controllato. Vale la pena però stimolare un dibattito in sede europea per contemplare le alternative al rifiuto categorico del riconoscimento del Mes.

Come cambieranno i rapporti fra Europa e Cina. Parla Quintieri (Sace)

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