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La telefonata fatta a Erdogan dal presidente americano Trump, per congratularsi del risultato del referendum che ha reso il presidente turco un super-presidente, ha spiazzato gli europei, preoccupati della deriva autoritaria di un Paese tanto importante per l’Europa e per la Nato. Più scontato era l’avallo che la Russia di Putin ha dato al discusso esito del voto.

Molti si sono meravigliati che Putin non si sia congratulato per primo. Forse il ritardo è stato motivato dall’entusiasmo che Ankara aveva manifestato per i 59 Cruise lanciati dagli Usa sulla base aerea siriana da cui era partito l’attacco chimico in un villaggio della provincia di Idlib, occupata dagli insorti siriani e dalla rinnovata richiesta turca di destituire Bashar al-Assad, alleato dei russi in Siria. Tale strike è stato “di punizione” per l’uso di armi chimiche da parte di Assad. Non ha mutato la situazione sul terreno e non è collegato con una strategia per porre fine al conflitto. Assad e i suoi alleati – russi, iraniani, sciiti iracheni e Hezbollah – mantengono la superiorità sugli insorti e continuano l’offensiva per riconquistare le enclaves ancora in loro possesso nella Siria occidentale.

La novità dello strike è costituita dal ritorno degli Usa nel teatro siriano. Sinora il loro impegno era stato limitato alla preparazione dell’offensiva contro Raqqa, capitale nominale dell’Isis, condotta a terra dalle cosiddette forze democratiche siriane (Sdf), costituite prevalentemente dalle milizie curde dell’Ypg. Ankara considera quest’ultima un’organizzazione terroristica, dati i loro stretti legami con il Pkk. Essi risalgono alla guerra fredda e continuano a essere appoggiate da Mosca, in cui sono presenti con un ufficio permanente. Allora, l’Urss appoggiava i curdi siriani perché offrivano basi al Pkk, che attaccava la Turchia membro della Nato. Oggi, Mosca conserva i contatti forse per avere un mezzo di pressione sulla Turchia. Dell’altalenante politica di Erdogan non può completamente fidarsi.

Come Putin, il presidente turco approfitta di ogni opportunità. Erdogan ha incassato certamente con soddisfazione le congratulazioni di Trump. Legittimano politicamente il suo discusso e risicato successo elettorale. Approva poi la politica anti-iraniana di Washington. Ritiene che, con il bombardamento in Siria, Trump si sia notevolmente avvicinato al campo sunnita, di cui Erdogan aspira alla leadership. Non sono solo i contrasti religiosi con l’Iran sciita, ma anche quelli geopolitici, per l’influenza nella “mezzaluna fertile”, che lo portano quasi inevitabilmente a scontrarsi con Teheran. Il suo “sogno” neo-ottomano implica la rivalità con gli eredi dell’impero persiano-fatimide. Comporta anche la sua contestazione della divisione delle spoglie della Sublime Porta dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale.

Più volte Erdogan ha dichiarato che l’instabilità del Medio Oriente trae origine dagli accordi Sykes-Picot e dal tradimento della “spia britannica” Lawrence d’Arabia, che non rispettò la promessa di mantenere l’unità del mondo arabo, ma di dividerlo in Stati artificiali, sottoposti al dominio coloniale di Londra e di Parigi. Particolarmente bruciante nell’immaginario collettivo turco è ancora la perdita di Mosul e della provincia di Ninive, che si estende ai ricchi giacimenti petroliferi di Kirkuk, ceduti alla Gran Bretagna e da essa all’Iraq solo nel 1927, dopo una contestata decisione della Società delle Nazioni che, secondo il Trattato di Losanna avrebbe dovuto decidere di assegnarli alla Turchia. Non per nulla, il bilancio statale turco comprende ancora un articolo dedicato a Mosul e il consolato turco della città aveva uno staff di ben 43 persone, catturate e poi rilasciate dall’Isis nel 2014, con accordi che ancora rimangono misteriosi.

La telefonata di congratulazioni di Trump a Erdogan va collocata nel quadro della nuova politica generale americana in Medio Oriente. Il bombardamento in Siria non comporterà un aumento sostanzioso dell’impegno Usa nel paese, eccetto per la conquista di Raqqa. Militarmente rimane un episodio isolato. Consente però agli Stati Uniti di avere un ruolo essenziale nei negoziati sul futuro assetto del paese. Finora erano monopolizzati da Mosca, Ankara e Teheran.

Putin sa che la pace in Siria non sarà possibile senza gli Usa. Le reazioni russe sono state formali. I russi erano stati avvertiti del bombardamento americano, in tempo utile per poter sgomberare le loro forze dalla base aerea attaccata. Inoltre, le loro potenti unità contraeree non erano intervenute contro i cruise americani. Nel recente incontro a Mosca del capo del Dipartimento di Stato, Tillerson, con Putin e Lavrov si è certamente parlato dell’assetto finale della Siria, anche se la notizia non è stata confermata.

La telefonata di Trump a Erdogan è stata certamente finalizzata a ottenere l’appoggio di Ankara che, come Washington, sostiene la necessità della destituzione di Assad. Ma la Russia e gli Usa si trovano di fronte a un dilemma. Come rimuovere Assad senza provocare il collasso dell’esercito siriano, unica forza che può evitare che la Siria si trasformi in una nuova Libia? Mosca continua a sostenere che Assad non è responsabile dell’uso delle armi chimiche. Non si sa se sia vero o no. L’atteggiamento di Mosca potrebbe dipendere dal fatto che la Russia sarebbe stata informata dell’intenzione di Assad di usare le armi chimiche. Non è verosimile che non ne fosse a conoscenza.

Assad potrebbe aver fatto però “il doppio gioco”. Potrebbe aver deciso d’impiegarle per dimostrare agli insorti la sua ferma determinazione a sconfiggerli, sebbene non possieda gli effettivi necessari per controllare l’intero territorio e non possa permettersi consistenti perdite, inevitabili con un’offensiva terrestre. Potrebbe però anche approfittare della relativa apertura americana sulla sua permanenza al potere, per provocare un dissidio fra Mosca e Washington.

Insomma gli sviluppi della situazione rimangono incerti. Entrambe le capitali hanno l’interesse che l’Isis non venga completamente sconfitto, per indurre i suoi foreign fighters a rimanere a farsi massacrare in Siria e in Iraq, invece di ritornare ai loro paesi, trasformandosi in una specie di al-Qaeda. Attentati in Occidente e in Russia eroderebbero la credibilità interna dei due presidenti. Finché l’Isis possiede un territorio è possibile colpirlo anche con azioni di rappresaglia. Se si trasformasse in una rete terroristica, immersa nelle società, sarebbe impossibile farlo. Certamente nei calcoli strategici americani e russi viene tenuto conto della convenienza, per entrambi, che il “macello” continui in Siria e in Iraq, invece di aumentare i rischi terrorismo nei due paesi.

L’esito delle elezioni turche e le congratulazioni di Trump ad Erdogan non mutano la situazione. Rimescolano semplicemente le carte di un “gioco” in cui gli Usa sono rientrati da protagonisti.

isis

Cosa c'è di nuovo fra Trump ed Erdogan

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