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Venerdì 6 gennaio il comunicato giornaliero con cui il Pentagono fa rapporto ai media dell’operazione Inherent Resolve, il nome che gli americani danno alla missione che combatte lo Stato islamico attraverso una Coalizione formata da una quarantina di paesi, parlava dell’uccisione di un leader dell’IS il 31 dicembre. Il kunya dell’eliminato è Mahmud al Isawi e non è un comandante di quelli famosi, dei quali molti sono stati freddati durante il 2016: per esempio, il portavoce Mohammed al Adnani, oppure la super star militare cecena Omar al Shishani, che con la sua barba rossa ha magnetizzato i caucasici verso il conflitto.

ANNI DI LAVORO PER COLPIRE IL CUORE DELL’IS

Al Isawi viene comunque descritto dalla press release dell’esercito americano come un attore di primo piano, che ha avuto un ruolo nelle relazioni tra le aree controllate e i consigli superiori centrali a cui accedono soltanto pochi addetti: inoltre avrebbe facilitato gli spostamenti di combattenti per operazioni esterne, lavorando a stretto contatto con un altro leader dell’IS Abd al Basit al Iraqi, “emiro dell’attack network in Medio Oriente” (così lo indica la Difesa statunitense), ossia colui che gestisce gli attentati in quell’area geografica. Basit al Iraqi è stato “eliminato” da un drone americano il 2 novembre, e – come ricorda il comunicato – è uno dei 16 membri significativi del network con cui il Califfato organizza gli attacchi all’estero ucciso nell’anno appena concluso (molti negli ultimi mesi). Tra questi c’è anche al Adnani, che è considerato oltre che il predicatore più famoso e l’uomo che ha spinto, attraverso la creazione della ragnatela mediatica, il proselitismo internazionale che ha reso all’organizzazione una forza unica, anche il comandante massimo su tutte le operazioni esterne dell’IS. Le operazioni esterne altro non sono che gli attentati, sia quelli che hanno colpito Parigi o Bruxelles, organizzati e progettati direttamente, sia quelli ispirati o eterodiretti, come Berlino per esempio. Queste uccisioni, secondo il report del Pentagono, stanno già rendendo più complicato per lo Stato islamico compiere attentati, perché spezzano la catena di comando. Domenica un sito locale, poi confermato da New York Times, Wall Street JournalWashington Post, che si occupa di ciò che accade a Deir Ezzor, dove l’IS mantiene un corridoio di comunicazione con Mosul, ha raccontato addirittura di un’operazione aviotrasportata avvenuta lungo la strada che conduce a Raqqa: alcuni elicotteri americani hanno lanciato un’incursione di uomini delle forze speciali contro un van che trasportava uomini dello Stato islamico, una missione simile a quella che portò all’uccisione di una importante leader, Abu Ali al Anbari, che doveva essere catturato vivo, ma invece è rimasto ucciso nel blitz (a marzo scorso).

AMERICANI CONTRO TURCHI CONTRO IS

Gli americani guidano al momento la lotta allo Stato islamico, sia per quel che riguarda la dimensione statuale sia per anticipare le mosse terroristiche. Ed è del tutto evidente che hanno trovato anche il modo di penetrare il paranoico sistema di sicurezza interno del Califfato, fatto di messaggi criptati e comunicazioni in stile mafioso: l’intelligence sul campo sta funzionando, le osservazioni aeree e le intercettazioni hanno beccato comunque la traccia giusta, e forse ci sono dei traditori che trasmettono le informazioni al momento opportuno, al punto che si tentano addirittura blitz per catturare vivi i papaveri del gruppo. Sono investimenti di tempo, risorse, miliardi. La maggior parte di quei sedici leader sono stati uccisi nell’area di Raqqa, al Adnani è stato colpito mentre vi si spostava verso il nord di Aleppo, nei pressi di una cittadina che si chiama al Bab che è una roccaforte del Califfato ed è considerata proprio la sede dell’unità che gestisce le operazioni all’estero dell’IS. Al Bab (che si significa “la Porta”) si trova a pochi chilometri dal confine turco, e da lì passavano gli ingressi e le uscite dei baghdadisti: ora la Turchia ha stretto i ranghi e lanciato una campagna militare che si chiama Scudo dell’Eufrate proprio contro al Bab. E questo è uno dei temi della guerra allo Stato islamico. Uno è: nonostante le operazioni americani continuino a colpire i leader, gli attacchi terroristici non si fermano.

OGNUNO FA LA PROPRIA GUERRA

L’altro è: ognuno combatte la propria guerra all’IS. Esempio: gli americani martellano incessantemente l’area di Raqqa uccidendo anche quei leader che sono connessi con la principale minaccia rappresentata dall’IS, il terrorismo, e allo stesso tempo hanno un contingente controllato che sta prendendo posizioni intorno alla roccaforte. Però questo contingente, oltre che da 600 consiglieri delle forze speciali statunitensi, è composto da miliziani locali, soprattutto curdi, che la Turchia detesta e per questo Washington li ha messi in stand by: non è possibile che i curdi liberino Raqqa, anche a poterlo, perché sennò l’operazione potrebbe essere vista come un’azione di conquista dai turchi e dagli arabi sunniti del nord della Siria su cui la Turchia ha un ascendente. Ankara considera i curdi siriani alleati degli Stati Uniti un gruppo terroristico, e per questo non partecipa a questo set di operazioni contro lo Stato islamico, nonostante sia nominalmente parte della Coalizione a guida americana (quella dell’operazione Inherent Resolve). Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno investito in questa campagna su Raqqa, e non partecipano se non in modo etereo all’altra lanciata dalla Turchia verso al Bab, anche perché i turchi mettono nel mirino tanto la sede delle operazioni estere dell’IS, quanto i curdi siriani dovessero trovarseli di fronte. Martedì scorso pare che qualcosa si sia mosso a Washington, ma non si è andati oltre all’annuncio dell’avvio delle missioni di monitoraggio e raccolta dati per individuare i target da colpire per aumentare in futuro il supporto aereo alla missione Scudo – e ora c’è il rischio di concorrenza con i russi. Poi, giovedì, la Russia ha fatto subito un passo ulteriore, firmando con i turchi un memorandum per il coordinamento delle missioni aeree su Al Bab.

L’ASSE RUOTANTE RUSSO

Sabato Turchia e Iraq hanno comunicato di aver raggiunto una quadra per un problema che si era creato al nord iracheno, dove Ankara aveva piazzato un proprio contingente per portare avanti un’altra operazione contro l’IS, anche in questo caso in modo semi-indipendente. I turchi hanno piazzato un campo militare a Bashiqa, una cittadina che si trova a pochi chilometri da Mosul, che è l’altro grande obiettivo avviato della Coalizione a guida americana, perché è la capitale del Califfato. In pratica i militari turchi erano lì senza autorizzazione di Baghdad, stavano addestrando una propria milizia fatta più che altro di turcomanni (un’etnia su cui Ankara ha presa) che aveva come compito quello di partecipare a proprio modo alla campagna su Mosul mentre cercava di stanare/combattere alcuni elementi del Pkk che al nord dell’Iraq hanno trovato rifugio. Ora iracheni e turchi fanno le paci anche perché la Turchia è membra d’onore di una troika, composta con Russia e Iran, che ha messo in piedi un cessate il fuoco sulla guerra civile siriana e sta cercando di intestarsi l’intera lotta la terrorismo in Siria e Iraq (dicono loro “lotta al terrorismo”, ma poi seguono in larga parte interessi nazionali che soltanto certe volte si sovrappongono con la guerra al Califfato). Teheran combatte l’IS per crearsi il ruolo di prima potenza regionale (in barba ai sauditi) e lo fa per conto dell’Iraq, fornendo sostegno alle milizie sciite, mettendo i propri reparti al fianco dell’esercito iracheno, e gestendo la pratica anche come inviato di Mosca, che in Iraq ha meno spazi che in Siria, dove però i russi non combattono prevalentemente l’IS, ma si limitano a dare sostegno al regime contro i ribelli. Durante l’audizione di conferma della nomina, Mike Pompeo, deputato repubblicano scelto dal presidente eletto americano come prossimo capo della Cia, ha detto apertamente davanti a cronisti e senatori: “La Russia non ha fatto nulla per aiutare a distruggere e sconfiggere lo Stato islamico”.

LA RUSSIA DEVIA IL FRONTE

Però la distensione dei rapporti tra Baghdad e Ankara è un segno che pure a Mosul il fronte guidato dagli americani non è poi così compatto, e a breve potrebbe prendere ordini da comandi diversi – o ordini diversi. La questione della lotta allo Stato islamico è stata tirata in ballo anche nel report dei servizi segreti sull’hacking russo durante le presidenziali americane: per le intelligence tra le varie cose la Russia cercava interferenze nelle elezioni americane perché con la vittoria di Donald Trump (che ha più volte annunciato di volersi allineare con i russi su molte delle crisi internazionali, partendo dal contro-terrorismo e dalla Siria) avrebbe potuto “raggiungere” lo scopo di spostare la lotta all’IS sotto la propria direzione: una traiettoria che segue un’agenda personale, come per esempio succede in Siria, e che non rappresenta una vera e propria missione contro il Califfato. Jeffrey Mankoff, in un saggio sull’ultimo numero di Foreign Affairs, ha spiegato che l’obiettivo russo collegato all’amministrazione Trump è consolidare i propri guadagni all’estero (Ucraina, Siria, e politiche di influenza) e sfruttare l’incertezza politica occidentale per cercare nuove opportunità, ma “Mosca probabilmente avrà poco interesse nel cercare di lanciare una nuova crociata contro l’Isis, come invece Trump a suggerito che dovrebbe fare”.  

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