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È stato scritto che ogni terremoto è una terribile storia a sé, ma esiste un “vocabolario comune” che ricostruisce e unifica i racconti: dal Belice nel 1968 al Friuli nel 1976, alla Valnerina nel 1979, all’Irpinia nel 1980, a Gubbio nel 1984, al sisma siracusano nel 1990, alle scosse tra Marche e Umbria del 1997-98, al sisma tra il Molise e la Puglia nel 2002 a quello dell’Aquila nel 2009, all’Emilia nel 2012 . Un vocabolario composto da parole come “vittime, paura, angoscia, macerie, tendopoli, soccorsi, salvataggi, aiuti, sciacalli, volontari, freddo, ricostruzione, dolore, morte e vita”. Sono queste alcune delle parole utilizzate per narrare in tempi diversi l’unico dramma, quello di vivere in un Paese che è in gran parte un territorio sismico.

Paesi ad alto rischio, però, come il Giappone oppure il Cile, hanno aggiunto nel loro vocabolario le parole “prevenzione, formazione e cultura sismica” per limitare i danni e i morti. Esistono piani di prevenzione, di simulazione e di addestramento elaborati in ogni municipio. È ciò che richiede la cultura della prevenzione, che in Italia manca. Eppure, sul Paese pesa come una spada di Damocle un dato che è spesso rimosso dalla memoria collettiva: l’Italia è l’area con i rischi più alti in Europa, non solamente per le manifestazioni naturali, ma anche per l’inadeguatezza delle infrastrutture e della logistica . Se questa consapevolezza si trasformasse in cultura politica, la prevenzione assumerebbe un ruolo strategico.

Le ricostruzioni però non devono illudere: il modello Friuli ha richiesto 10 anni di lavoro. Per ogni ricostruzione ci sono alcune condizioni da rispettare, come ad esempio l’individuazione delle competenze, dei poteri e delle responsabilità. Sono necessarie procedure semplificate e parametri oggettivi e uguali per tutti per permettere ai lavori aggiudicati di essere realizzati, sia a livello qualitativo sia nella tempistica. Rimane poi il controllo delle autorità sulla qualità dei lavori e sulla solidità finanziaria delle imprese incaricate. D’altra parte, è noto come molte imprese, per tenere prezzi competitivi, risparmino sui materiali e vengano pagate dallo Stato con gravi ritardi.
Il limite di non poter prevedere un sisma e l’impotenza di fermarlo possono essere arginati con la cultura della consapevolezza, della prevenzione e della cura. In questa ricostruzione però si è chiamati a osare di più. Per garantire trasparenza, gli appalti pubblici dovrebbero essere gestiti elettronicamente e controllati online dai cittadini. Per assicurare la prevenzione, varrebbe la pena di introdurre il fascicolo di fabbricato che aveva più volte proposto Francesco Rutelli quando è stato sindaco di Roma e poi ministro dei Beni culturali.
Il progetto “Casa Italia” proposto dal Presidente Renzi, che coinvolge enti, istituzioni, parti sociali e imprenditori, sembra la risposta più ragionevole per rispondere all’urgenza, ma potrà essere efficace solo se troverà collaborazione nelle parti sociali e garantirà ai cittadini trasparenza, completezza e aggiornamento nei dati e nei documenti.

Chiuso il sipario dell’emergenza, che simbolicamente è rappresentata dall’apertura della scuola di Amatrice, le domande che rimangono sono di natura politica: ricostruire perché? Non basta ed è retorico pensare di ricostruire semplicemente le case nel luogo in cui sono crollate. È urgente chiedersi: qual è il progetto politico su quei paesi e in quel territorio? Quali infrastrutture potenziare? Quale idea di sviluppo esiste per quelle vallate scarsamente abitate per investire in strade, acquedotti ecc.? È una ricostruzione che guarda indietro o in avanti? Coinvolgerà le popolazioni e le famiglie del luogo? Rispondere a queste domande significa dare a quei territori anche una ricostruzione spirituale che garantisca futuro, innovazione e un vero tessuto sociale. Tutto questo per elaborare in concreto, come Paese, il lutto nazionale: se lutto, dal latino lugere, significa piangere, che questo pianto generi una responsabilità condivisa per il futuro.

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Cosa fare ad Amatrice dopo il terremoto

È stato scritto che ogni terremoto è una terribile storia a sé, ma esiste un "vocabolario comune" che ricostruisce e unifica i racconti: dal Belice nel 1968 al Friuli nel 1976, alla Valnerina nel 1979, all’Irpinia nel 1980, a Gubbio nel 1984, al sisma siracusano nel 1990, alle scosse tra Marche e Umbria del 1997-98, al sisma tra il Molise…

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