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Che cosa succede sul mercato del petrolio? Gli utili dei grandi gruppi dell’oil&gas si erodono e intere economie entrano in crisi di pari passo con tracollo del prezzo del greggio: un puro effetto della vecchia legge della domanda e dell’offerta o ci sono altri fattori in gioco?

USA, LE SCORTE SI ACCUMULANO

La settimana scorsa il prezzo del greggio Usa (Wti o West Texas Intermediate) ha toccato nuovi record negativi (poco sopra i 42 dollari), mentre il Brent faceva lievemente meglio (un po’ più di 44). L’American Petroleum Institute ha spiegato: le scorte di greggio sono scese solo di 827.000 barili la settimana scorsa anziché di 2,3 milioni di barili come si aspettavano gli analisti.

La U.S. Energy Information Administration ha poi comunicato i suoi dati ufficiali: il greggio commerciale in storage negli Usa è aumentato di 1,7 milioni di barili per un totale di 521,1 milioni di barili nella settimana terminata il 22 luglio, mentre lo stock di benzina è salito di 452.000 barili, contro le attese degli analisti di un incremento di 40.000 barili.

“C’è ancora un eccesso di fornitura di greggio e nessun segnale che la domanda stia aumentando; i raffinatori non possono semplicemente continuare a fare benzina perché non sanno più dove mettere il greggio”, ha dichiarato Phil Davis, trader di PSW Investments a San Diego, California.

Certo i prezzi attuali sono del 60% più alti rispetto ai 27 dollari al barile toccati nel primo trimestre dal Brent (26 dollari per il Wti), record negativo degli ultimi 12 anni. Ma sono anche prezzi molto lontani dagli oltre 100 dollari al barile che si registravano a metà 2014. Inoltre la risalita sembra essersi fermata a maggio-giugno (50 dollari).

IL PREZZO CALERA’ ANCORA

Il prezzo calerà ancora per effetto dell’offerta in eccesso, secondo Wall Street Italia: con le loro azioni per lottare contro la crisi dell’oro nero, le compagnie di raffinazione stanno solo rimandando di qualche mese il calo dei prezzi del greggio, e quel calo a quel punto “sarà molto più acuto”, afferma l’analista di Morgan Stanley, Adam Longson, in una nota ai clienti in cui si dice che “c’è da aspettarsi una correzione”. Le scorte di carburante sono ai massimi degli ultimi cinque anni in quasi tutte le regioni, ma i margini dei prodotti sono in netto calo: questo gap finirà per pesare anche sui mercati del petrolio, dice l’analista.

“Le scorte di benzina sono del 10% superiori ai livelli di un anno fa e il mercato del greggio ne risentirà”, conferma Greg Priddy, director of global energy di Eurasia Group. Il grande timore è che la domanda di greggio scenda ulteriormente quando le raffinerie smetteranno di lavorare in autunno per la manutenzione di routine prima dell’inverno.

Michael Wittner, head of oil research di Societe Generale, è meno pessimista: “Quello che i margini nella raffinazione ci dicono è che ci potrebbe essere debolezza nella domanda dei prodotti, ma molti dei timori sono esagerati: sì, le scorte di prodotti sono alte ma sono così da mesi”, osserva. Sia Wittner che Priddy dicono però di tenere gli occhi puntati sulla stagione dedicata alla manutenzione: potrebbe iniziare in anticipo e i tagli alla produzione potrebbero essere più cospicui del solito. Qualche analista prevede una discesa del prezzo del greggio di nuovo nel range dei 30, ma per Wittner si resterà intorno ai 40: “Si scenderà? Forse sì. Ma non sarà un crollo”.

Gli analisti di Morgan Stanley notano che se gli Usa faranno risalire la produzione di shale si creeranno altre eccedenze a partire da agosto: il prezzo crollerà fino a 35 dollari circa. Pochi però si aspettano di scendere sotto i 30 come a febbraio. “Io penso che staremo fra i 40 e i 45 dollari”, dice Salvatore Recco di Gravity Investments a Denver, Colorado.

Nel suo ultimo report la Banca Mondiale ha alzato le previsioni sul prezzo del greggio per quest’anno, fissandolo a 43 dollari, più basso dell’attuale, ma più alto di quanto prevedono molti analisti.

PERCHE’ SIAMO ARRIVATI QUI

Il motivo dell’eccesso di produzione è da ricercarsi innanzitutto nel ritorno sul mercato degli Stati Uniti con la rivoluzione dello shale oil. Così i paesi che prima vendevano petrolio agli Usa, come Arabia Saudita, Nigeria, Algeria, hanno dovuto trovare nuovi sbocchi, rivolgendosi ai mercati asiatici. Anche Canada, Iraq e Russia hanno aumentato l’output. L’offerta cresce, i prezzi scendono – e potrebbe andare peggio in futuro: le sanzioni all’Iran sono state eliminate e il paese tornerà a produrre. C’è da aggiungere che i paesi sviluppati tentano politiche energetiche a basso impatto ambientale e cercano fonti alternative al petrolio, mentre le economie mondiali ristagnano e non hanno bisogno di così tanto greggio.

CHE SUCCEDE AI PAESI ESPORTATORI

I primi ad essere danneggiati dal calo dei prezzi sono i grandi produttori come Venezuela, Nigeria, Ecuador, Brasile e Russia. Anche negli Usa, che pure pompano petrolio, sfruttare i pozzi non è redditizio e economie di stati come Alaska, North Dakota, Texas, Oklahoma e Louisiana ne risentono. Stati molto ricchi come l’Arabia Saudita possono resistere, ma non senza qualche difficoltà.

Ci sono però questioni complesse dietro l’apparente razionalità della dinamica domanda-offerta. I sauditi si ostinano a non tagliare la produzione per “instillare disciplina degli altri membri Opec e per danneggiare la nuova industria dello shale americana”, dicono alcuni commentatori. Robin Mills, head of consulting di Manaar Energy, pensa che i sauditi temano la forza degli Usa come produttori di petrolio e, pur avendo bisogno di un prezzo del greggio sugli 85 dollari per sostenere la loro ricchezza, hanno riserve valutarie di 700 miliardi di dollari, tali quindi da permettersi di restare alla finestra. Inoltre, i sauditi tagliarono la produzione degli Anni ’80 per rivitalizzare i prezzi, senza grandi risultati ma con danni alla loro economia, e non vogliono ripetere l’errore. Kuwait e Emirati Arabi Uniti sono altrettanto ricchi da permettersi i prezzi bassi. Altri membri Opec come Iran, Iraq e Nigeria ovviamente non hanno lo stesso spazio di manovra.

Alcune aziende petrolifere pensano che i sauditi vogliano danneggiare Russia e Iran, e in questo sarebbero allineati con gli intenti degli Stati Uniti: così sia arabi che americani spingono giù i prezzi. Ma qualcuno le ritiene teorie “cospirazioniste”.

Un elemento che invece sicuramente pesa è la guerra in Siria e Iraq: le conquiste dello Stato Islamico si sono tradotte in pozzi sequestrati dai terroristi. Si stima che Isis guadagni 3 milioni di dollari al giorno vendendo il “suo” petrolio sul mercato nero, minando ancor più i prezzi.

VANTAGGI A META’ PER GLI IMPORTATORI

Se il petrolio costa meno ci sono apparenti vantaggi per i paesi che importano, come quelli europei, alle prese con economie deboli e inflazione stagnante: un calo del 10% dei prezzi si traduce in un aumento dello 0,1% della produzione economica, si dice, e avvantaggia i consumatori. Lo stesso discorso si applica in teoria alla Cina, che si avvia a diventare il più grande importatore netto di petrolio al mondo. Tuttavia gli esperti avvertono: non basta il petrolio meno caro a ribaltare le crisi economiche. Il Giappone ne è un esempio: importa quasi tutto il petrolio di cui ha bisogno. Ma i prezzi dell’energia bassi hanno spinto alla deflazione, nemica di quella crescita che il primo ministro Shinzo Abe sta cercando in tutti i modi di riportare nel paese del Sol Levante.

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