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Mercati finanziari delusi dalle ultime decisioni della Bce: Borse in calo e spread in rialzo, mentre l’euro si è nuovamente rafforzato sul dollaro. Troppo elevate erano state le attese suscitate dal Governatore Mario Draghi in questi ultimi mesi, durante cui aveva ripetuto senza sosta la disponibilità, se necessario, a modificare entità, durata e composizione del Qe per raggiungere l’obiettivo di riportare l’inflazione al livello vicino, ma non superiore al 2%.

Eurostat ha appena diffuso i dati dell’inflazione a novembre: rispetto all’anno precedente, i prezzi al consumo sono aumentati solo del +0,1%: una inezia. Ma, quel che è peggio, è il trend: l’andamento è in calo dal novembre 2014, quando il tasso era del +0,2%. Nel corso di quest’anno siamo caduti in deflazione a settembre, quando la variazione è stata negativa dello 0,1%. È stata la componente dei prezzi dell’energia a far sballare i conti, con un -7,3% nel rapporto tra novembre scorso e lo stesso mese del 2014. Anche in questo caso, la situazione è andata peggiorando, visto che a novembre 2014 la contrazione rispetto all’anno precedente era stata appena del -2,6%. Anche escludendo i prodotti energetici, in Europa l’inflazione è rimasta pressochè costante: su base annua, a giugno scorso era del +0,9% mentre a novembre è stata del +1%. Siamo in pieno shock deflazionistico di origine esterna, una situazione completamente opposta a quella vissuta in passato, quando imbarcavamo inflazione perché aumentava la “Tassa dello Sceicco”. La caduta dei prezzi del petrolio è stata più che doppia, in proporzione, rispetto a quella dell’euro rispetto al dollaro.

Abbiamo innescato, proprio noi europei, con manovre fiscali di inusitata violenza, un ciclo di deflazione mondiale: negli otto anni che vanno dal 2000 al 2007, l’Eurozona era cresciuta in termini reali ad un ritmo medio annuo del 2,2%. Negli otto anni compresi tra il 2008 ed il 2015, la crescita media è stata invece solo dello 0,11%. Il contributo al commercio mondiale si è ribaltato: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti è passato da una media annua in sostanziale pareggio con il -0,36%, ad un sostanzioso avanzo con il +0,83%. Ma il trend di crescita dell’avanzo delle partite correnti è stato esponenziale, visto che si è passati dal +0,08 del 2007 al +3,15% del Pil dell’Eurozona nel 2015, ottenuto facendo crollare l’import e strssando l’export.

Non solo esportiamo deflazione, ma l’aumento del saldo estero non ha neppure compensato l’aumento della disoccupazione provocato dal crollo della domanda interna, visto che il tasso è passato in media dall’8,7% al 10,5%. Due altri elementi completano il quadro dell’Eurozona: il tasso degli investimenti sul pil è caduto dal 23% al 19%, nonostante il risparmio sia rimasto stazionario attorno al 23%. L’Eurozona accumula sempre più consistenti risorse dall’estero, continua a risparmiare ma non investe: ecco il perché della crescita reale bassa, dell’alta disoccupazione e della inflazione a zero.

Il paradosso del modello di Qe deciso dalla Bce è rappresentato dalle conseguenze che derivano dall’obiettivo di far aumentare l’inflazione mediante la svalutazione dell’euro sul dollaro, attraverso spostamenti di capitale che fanno carry trade. Si assiste, infatti, ad una triplice compressione dei redditi: le politiche fiscali rimagono restrittive, o solo congiunturalmente neutrali; i salari vengono ridotti per acquistare competitività sull’estero e comunque per mantenere adeguati margini di profitto; infine, la svalutazione sul dollaro ha ridotto comunque, al di là dei prodotti energetici, il potere reale di acquisto in euro delle famiglie.

È davvero difficile immaginare che, con la combinazione di queste politiche fiscali e monetarie, l’inflazione possa aumentare e migliorare l’andamento del rapporto tra debiti pubblici e Pil nominale che tanto preoccupa i governi: i cittadini non hanno beneficiato a pieno della diminuzione dei prezzi del petrolio, che avrebbe restituito loro altro potere d’acquisto da destinare ai consumi, per via della svalutazione dell’euro; le imprese non hanno beneficiato della svalutazione sul dollaro per via del sovrapporsi della crisi dei Paesi emergenti, del polverizzarsi di interi mercati per via delle sanzioni commerciali e dell’instabilità politica e del rallentamento della Cina; il basso costo del denaro non ha riattivato il credito, per via dei vincoli crescenti di capitale posti alle banche e dal peso delle sofferenze.

Il sistema bancario, soprattutto quello italiano, è bloccato anche per via degli assurdi vincoli posti dalla Bce: nell’uso della liquidità concessa con le T-Ltro a tre anni, per il timore di innescare una bolla dei prezzi degli immobili in Germania, sono proibiti i mutui immobiliari, con la conseguenza che un consistente stock di costruzioni già realizzate è rimasto invenduto aggravando le sofferenze delle banche. D’altra parte, l’orizzonte troppo breve della restituzione dei fondi alla Bce avrebbe scoraggiato comunque il sistema bancario dal concedere i mutui: serviva una operazione analoga a quella compiuta dalla Fed, quando acquistava le Abs immobiliari gestite dalla Agenzie federali.

La liquidità immessa con il Qe nel sistema bancario non può affluire all’economia reale, per via della domanda interna castigata congiuntamente dalle politiche fiscali, salariali e valutarie. Le imprese, che hanno ancora una grande capacità produttiva disponibile, attenderanno di saturarla a pieno prima di fare nuovi investimenti. Gli Stati sono vincolati dal Fiscal Compact al pareggio strutturale: anche gli investimenti pubblici sono penalizzati, mentre del Piano Juncker si sono perse le tracce. Così, il risparmio continua a defluire dalle banche, per via dei tassi irrisori sui depositi e dalla penalizzazione dei bond subordinati introdotta con la normativa sul bail-in caso di fallimento.

Ancora non è chiaro, soprattutto in Europa, se si debba ancota effettuare un deleveraging o meno: se il debito pubblico e privato vada ridotto perché è eccessivo, rispettivamente rispetto al prodotto, al reddito delle famiglie ed al fatturato delle imprese, oppure se deve aumentare. Il Fiscal Compact impone una riduzione dei debiti pubblici, ma un incremento di quelli privati non sembra sostenibile finché salari e fatturati non aumenteranno.

La liquidità immessa finora con il Qe è stata utilizzata prevalentemente sui mercati finanziari: lo dimostrano l’andamento del credito, quello degli investimenti, la differenza tra l’andamento degli indici dei prezzi e quelli delle Borse.

Serve una profonda riflessione sulle politiche dell’Eurozona: sul modello di crescita e sulla politica valutaria, in funzione dei rapporti con il resto del mondo; sulla politica occupazionale e sulla politica salariale, in funzione dei processi di innovazione tecnologica e delle dinamiche demografiche; sul rapporto tra economia reale e sistema finanziario, in funzione di un equilibrio reciprocamente sostenibile; sulle innovazioni necessarie in campo energetico ed ambientale; sul riassetto di un sistema in cui la banca universale accede alla liquidità, arbitrando a suo piacimento e convenienza tra gli impegni sui mercati e quelli nell’economia reale; sullo smantellamento dei sistemi europei di welfare pubblico a ripartizione, mentre nel silenzio generale vanno alle stelle i costi di quelli privati americani gestiti su base assicurativa. La sovranità condivisa a livello di Unione europea è solo un sipario, da calare al più presto.

Manca un disegno unitario, una strategia plausibile: ecco perché aver negato pochi miliardi in più al Qe, prorogandolo invece di qualche mese, non serve affatto. Mercati scontenti e cittadini interdetti.

MARIO DRAGHI BCE

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