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Luigi Einaudi sosteneva che il valore legale del titolo di studio è un veleno. Aveva ragione, come emerge guardando al mondo universitario attuale, dove gli atenei privati e telematici si trovano costantemente sotto l’attacco dei vecchi monopolisti di Stato. Il fatto che il mondo universitario sia gestito attraverso una pianificazione triennale di stampo sovietico (che, ad esempio, può impedire la creazione di nuovi corsi), e che dunque non vi sia un’autentica libertà di educazione, permette agli atenei tradizionali di sbarrare la strada ai concorrenti. Per questo non dobbiamo sorprenderci che la Crui (l’associazione privata che riunisce i rettori delle università in presenza) abbia dichiarato guerra alle telematiche, cercando di ostacolarne l’esistenza con vari argomenti.

Innanzitutto, i fautori del monopolio di Stato sottolineano l’importanza della relazione interpersonale, quale si ha nelle università in presenza. In più, gli incumbent affermano che solo queste università farebbero selezione e ricerca. Le telematiche, insomma, sarebbero semplici “diplomifici”.

Chi invece difende la libertà d’insegnamento e il pluralismo sottolinea il ruolo sociale svolto dalle imprese private – che non gravano sui contribuenti – e l’esigenza di valorizzare le tecnologie, soprattutto dinanzi ai giovani di oggi. Nel momento in cui internet svolge un ruolo così importante, non è sorprendente che anche l’alta formazione sia investita da trasformazioni.

Va aggiunto che una lezione registrata chiede al docente una peculiare attenzione alla didattica, insieme a una chiarezza di linguaggio e a una linearità espositiva che non sempre si ritrovano nei corsi in presenza. Oltre a ciò, raramente le università in presenza impiegano i tutor, come invece fanno le telematiche.

Un altro dato elementare è che l’impressionante successo dei nuovi atenei è in larga misura conseguente al fatto che le telematiche offrono formazione a coloro che le università tradizionali non hanno saputo raggiungere: soprattutto nei ceti più deboli. Gli atenei on line sono per lo più privati e i loro studenti sono spesso lavoratori (anche se il numero dei diciannovenni sta crescendo) del Mezzogiorno d’Italia. D’altra parte, la telematica è una soluzione più economica, dato che evita di spostarsi da casa e consente di formarsi e lavorare al tempo stesso.

L’ostilità verso i nuovi atenei da parte del Pd e della ministra attuale, Anna Maria Bernini, non sorprende. Gli apparati di potere delle università di Stato stanno assistendo a trasformazioni che toccano le loro posizioni di potere: ci sono in gioco interessi, senza dubbio, ma anche fattori ideologici. La Crui esprime quella sensibilità progressista e politicamente corretta che da decenni domina la cultura accademica, mentre le telematiche sono una realtà più plurale: differenziata e quindi aperta a tutte quelle identità culturali che l’ideologia prevalente ha marginalizzato.

Abituato a vivere di fondi pubblici e programmazione ministeriale, il mondo universitario non può ammettere l’esistenza di atenei indipendenti. Non è quindi sorprendente che la Crui voglia cancellare le telematiche. Il fatto che l’associazione privata dei rettori abbia modificato il proprio statuto per impedire ai rettori delle università on line di aderire è, al riguardo, quanto mai eloquente.

L’azione lobbistica ha prodotto effetti, dato che ormai si punta a trattare allo stesso modo realtà diverse (un’aberrazione giuridica), imponendo il medesimo rapporto numerico tra docenti e studenti alle università in presenza e a quelle telematiche. Vi è perfino chi vorrebbe impedire agli studenti di utilizzare lezioni registrate. Numerosi lavoratori iscritti alle telematiche, quindi, non potrebbero presentarsi agli esami e laurearsi, e questo a dispetto del fatto che nelle università in presenza è possibile superare un esame anche da non frequentante. Perché, va sempre ricordato, dopo il primo anno la percentuale degli studenti che seguono i corsi in aula crolla: le università “in presenza”, insomma, sono per lo più università “in assenza”.

In una società che cambia tanto velocemente e nella quale la formazione non s’interrompe a 25 anni, è assurdo ostacolare gli atenei telematici, così in sintonia con le generazioni dei “nativi digitali”. È anche una barbarie che, usando il manganello degli accreditamenti di Stato (il frutto velenoso di quel valore legale del titolo di studio denunciato da Einaudi), atenei pubblici e poco interessati a competere pretendano di distruggere le nuove realtà imprenditoriali.

In un Paese come l’Italia, con un bassissimo numero di laureati, i servizi forniti dalle telematiche – a costo zero per il contribuente – sono preziosi. Per giunta, un atteggiamento razionale dovrebbe essere consapevole che la società italiana oggi ha bisogno sia degli atenei in presenza, sia di quelli on line; che ognuno dei due modelli ha i propri punti di forza e debolezza; e che una concorrenza tra università diverse può soltanto giovare a tutti.

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