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Nei giorni in cui Washington decide di intensificare la sua presenza nel Mar Cinese Meridionale per venire incontro ai timori alleati dovuti all’attivismo di Pechino, ieri gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare si sono detti concordi nell’importanza di dare una “risposta internazionale forte e unitaria di fronte alle provocazioni della Corea del Nord” in seguito all’ultimo test nucleare. Una sintonia che si tradurrà in una bozza di risoluzione per nuove sanzioni contro Pyongyang, che sarà presentata oggi stesso dall’ambasciatrice statunitense Samantha Power al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ne discuterà alle 20 (ora italiana).

LA QUESTIONE NORDCOREANA

Dopo gli accordi su climate change ed emissioni, si tratta di una nuova svolta (anche se attesa, come ricorda l’agenzia Reuters), considerato il tradizionale supporto che la Cina ha finora offerto al vicino regime comunista nordcoreano e, a poche settimane dal Nuclear Security Summit, che si terrà dal 31 marzo al primo aprile nella capitale federale degli Usa, l’intesa segnala che la cooperazione tra le due potenze, seppur ancora fragile, segnala passi in avanti. Ieri – racconta una nota della Casa Bianca – il capo di Stato americano e il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama, Susan Rice, hanno incontrato il ministro degli esteri cinese Wang Yi. Tanto più dopo le recenti provocazioni del dittatore Kim Jong-Un, Washington e Pechino concordano che “non accetteranno che la Corea del Nord sia uno Stato dotato di armi nucleari”.
Per la metà più povera della regione coreana, già isolata da gran parte del mondo e in forte difficoltà economica, questo rischia di essere il colpo di grazia: le nuove sanzioni, spinte dal desiderio cinese di denuclearizzare la Penisola, spiega la Cnn, si sommerebbero infatti a quelle imposte dopo i tre precedenti test nucleari nel 2006, 2009 e 2013.

LE TENSIONI NEL MAR CINESE

Dove la cooperazione tra Washington e Pechino stenta a decollare, ma anzi, si assiste a crescenti tensioni, è invece nel Mar Cinese Meridionale. Il dossier è stato toccato anche nell’incontro tra Susan Rice e Wang Yi. Nell’occasione, il consigliere di Obama ha invitato la Repubblica popolare “a compiere passi concreti per affrontare le preoccupazioni statunitensi e regionali” e ribadito l’impegno americano a far rispettare nell’area i principi del “diritto internazionale, del commercio legale senza ostacoli, della libertà di navigazione e di sorvolo” e una risoluzione pacifica delle controversie. L’ammiraglio Harry Harris, a capo dello US Navy’s Pacific Command (il comando della Marina militare americana che opera nel Pacifico) – scrive oggi il Guardian – ha espresso profonda preoccupazione per i movimenti dei cinesi, che dopo aver costruito diverse isola artificiali starebbero ora “militarizzando” l’area, posizionando missili e installando radar. Manovre che preoccupano i tanti alleati di Washington nella regione, Giappone in testa, che con Pechino si contende le isole Senkaku (che i cinesi chiamano Diaoyu). A questo attivismo, spiega Harris, il Pentagono potrebbe reagire dispiegando più asset navali: una seconda portaerei, cacciatorpedinieri e sottomarini.

LA SFIDA CYBER

Altro fronte caldo, ma dagli sviluppi meno chiari, è quello che riguarda lo spazio cibernetico. All’inizio del mese di febbraio, ha scritto Formiche.net, il segretario alla Difesa americano Ashton Carter ha chiesto di aumentare i fondi a disposizione del bilancio per il 2017 del Pentagono, spiegando che il piano economico è stato progettato tenendo a mente che la rinnovata spinta al riarmo della Cina è la principale minaccia per gli Stati Uniti. Di queste nuove risorse, un numero sempre maggiore è dedicato proprio alla cyber security: circa 7 miliardi di dollari saranno investiti l’anno prossimo sul comparto cibernetico della Dipartimento della Difesa americano (per un totale di 35 miliardi in 5 anni). L’investimento mira a far diventare il settore cyber un asset strategico delle Forze Armate americane: non più soltanto strumento di difesa, ma opzione offensiva a tutti gli effetti come quella terrestre, aerea e navale. Una scelta che serve soprattutto a replicare ai movimenti di Pechino, che il 31 dicembre scorso ha annunciato una riorganizzazione nell’assetto militare delle sue le unità informatiche e di quelle di raccolta e sottrazione di dati di intelligence, che conterebbero oggi oltre centomila hacker impegnati in attacchi in Rete contro strutture militare e civili.

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