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Non c’è pace per Saipem, la società di servizi petroliferi controllata al 30% dall’Eni. Venerdì 5 febbraio, nell’ultimo giorno di contrattazione in Borsa dei diritti relativi all’aumento di capitale da 3,5 miliardi , le opzioni sono letteralmente crollate. Considerando anche la performance negativa dei giorni precedenti, per i diritti si chiude quindi con un bilancio in rosso la parentesi di negoziazione a Piazza Affari.

IL CROLLO VERTICALE DEI DIRITTI DI OPZIONE

Vediamo come si sono mossi: le opzioni connesse alla ricapitalizzazione, ciascuna delle quali consente di sottoscrivere 22 azioni Saipem di nuova emissione, venerdì 5 febbraio hanno lasciato sul terreno di Borsa un altro 55,8% chiudendo a 0,23 euro. Se si considera che lunedì 25 gennaio, primo giorno dell’aumento, i diritti avevano avviato le negoziazioni a 3,67 euro, significa che nelle due settimane dell’operazione hanno bruciato il 94% del loro valore. Si sono quasi azzerati, insomma.

Mentre l’azione Saipem, nello stesso periodo, è scesa per poi recuperare, chiudendo stabile a quota 0,52 euro, lo stesso livello da cui era partita lunedì 25 gennaio. Come ha scritto Sara Bennewitz su Repubblica, “data la struttura dell’operazione, che vincola gli investitori a negoziare i diritti a blocchi di 22, e dato che Consob ha vietato le vendite allo scoperto, la forbice tra il prezzo delle azioni (che rappresentato solo il 4% del capitale futuro) e quella delle opzioni non si è mai chiusa”. Tanto che, al termine della contrattazioni di Borsa del 5 febbraio, i diritti esprimevano un valore teorico delle azioni Saipem dopo l’aumento pari a 0,37 euro, molto inferiore rispetto ai 0,52 euro della chiusura delle azioni.

CHE SUCCEDE ORA

Il cosiddetto inoptato, vale a dire le opzioni vendute dagli azionisti Saipem (che corrispondono a una porzione di azioni di nuova emissione non sottoscritta), a questo punto sarà riofferto in Borsa prima della chiusura vera e propria dell’aumento di capitale, prevista per l’11 febbraio. “Con queste premesse, e in attesa dell’asta delle opzioni inoptate – si legge su Repubblica gli esperti ritengono ci sia il rischio che le banche del consorzio di garanzia debbano farsi carico di una parte dell’operazione, fattore che potrebbe deprimere ulteriormente il corso azionario”. A garantire la sottoscrizione del resto delle nuove azioni che dovessero restare inoptate è il consorzio di istituti di credito formato da Goldman Sachs, Jp Morgan, Banca Imi, Citigroup, Deutsche Bank, Mediobanca, Unicredit, Hsbc, Bnp Paribas, Abn Amro e Dnb Markets. Sul Giornale, Sofia Fraschini ha scritto che un trader ipotizza un inoptato pari al “10% su 440 milioni di diritti, pari a 9,5% circa del capitale a aumento terminato. A questo punto – si legge sul Giornale – le banche potrebbero diventare azioniste”. Va però sottolineato che tipicamente gli istituti del consorzio di garanzia tentano di liberarsi delle azioni il più presto possibile, creando così ulteriori pressioni ribassiste.

IL PROBLEMA PETROLIFERO

Le prospettive di Saipem appaiono quanto mai fosche soprattutto a causa del crollo del petrolio. Già il prospetto informativo dell’aumento di capitale lanciava l’allarme, spiegando che, se il greggio dovesse restare ai livelli attuali per altri tre o quattro mesi, Saipem potrebbe essere costretta a rivedere il piano triennale, che era stato elaborato su un valore del petrolio molto lontano dalle quotazioni odierne. Si prevedeva addirittura una super risalita del greggio da 55 dollari al barile nel 2016 fino a 80 dollari nel 2019. Con uno scenario di prezzo di 55 dollari per tutti gli anni di piano, avverte sempre il prospetto, la società chiuderebbe in perdita fino al 2019. Di conseguenza, andrebbe ancora peggio se il petrolio dovesse restare inchiodato intorno ad area 30 dollari, livello a cui staziona in questi giorni.

STANDARD & POOR’S NON AIUTA

A complicare le cose, la mossa dell’agenzia Standard & Poor’s, che – come annunciato da Saipem il 5 febbraio, come detto ultimo giorno di negoziazione dei diritti in Borsa – ha messo sotto revisione, con possibili implicazioni negative, il giudizio “BBB-” sulla società guidata da Stefano Cao. Alla base della decisione, proprio il declino dei prezzi del petrolio, che, si legge sul Giornale, “potrebbe limitare molto la flessibilità finanziaria di Saipem, portando alla perdita dell’investment grade (il giudizio minimo di affidabilità da parte delle agenzie di rating, ndr). Fattore molto rischioso per il gruppo che con l’aumento ha alleggerito un debito monstre anche per avere un rating che lo favorisse nell’ottenimento di nuove commesse”. 

Di più. Se S&P dovesse effettivamente tagliare il rating, spiega il Giornale, Saipem rischierebbe “un aumento delle commissioni di garanzia richieste dal consorzio bancario di collocamento; un incremento dei tassi d’interesse sulle nuove linee di credito da complessivi 4,7 miliardi e l’introduzione di un nuovo covenant (un parametro da rispettare con gli istituti finanziatori calcolato sui numeri di bilancio, ndr) sul debito”. Così, conclude il Giornale, “in attesa dei conti a fine febbraio, tra gli operatori si vocifera della necessità, entro un anno, di una nuova iniezione di liquidità”. E questo mentre ancora non è calato il sipario sull’aumento di capitale da 3,5 miliardi.

Che succede a Saipem?

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