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Il Financial Times ha pubblicato una grande inchiesta divisa in due parti, in cui racconta “il mondo dietro al petrolio dello Stato islamico” in Siria e Iraq, e i rapporti tra IS e regime nella gestione di alcuni impianti. Su tutto c’è un aspetto molto interessante, perché è vero che è già noto come l’economia del Califfato si basi in larga percentuale sul traffico di greggio e gas, e dunque le rivelazioni giornalistiche (seppure frutto di un lavoro magistrale corroborato da decine di testimonianze) stupiscono relativamente, però è altrettanto noto che uno dei principali obiettivi della missione militare della Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti era quello di distruggere tale infrastruttura finanziaria. Ma come scrive FT, lo Stato islamico ha messo in piedi «un’operazione tentacolare simile a quella di una [comune] compagnia statale» cresciuta nonostante il tentativo di distruggerla (che dura da oltre un anno).

L’IMPORTANZA DEL PETROLIO

Il petrolio permette al Califfato il mantenimento militare, rappresenta una leva di pressione geopolitica locale, e garantisce il funzionamento di una fondamentale statehood: la fornitura di energia elettrica ai 10 milioni di cittadini che vivono nelle aree controllate dall’IS. Parlare del Califfato come di un vero e proprio Stato, sembra paradossale, ma è proprio questa la caratteristica che differenzia l’IS da qualsiasi altro gruppo terroristico (per questo è pure errato definirlo semplicemente gruppo terroristico). Per dire, al Qaeda, il threat del terrorismo islamico globale, dipende economicamente dalle donazioni occulte di ricchi radicali sunniti e da qualche riscatto ogni tanto: lo Stato islamico invece ha una propria economia.

La produzione complessiva degli otto campi controllati dallo Stato islamico, tra cui quello molto grande di al Omar a sud di Deir el Ezzor (est siriano, verso l’Iraq) si attesta intorno ai 35-40 mila barili al giorno. Il prezzo di vendita varia dai 20 ai 45 dollari a barile, dipendentemente da qualità e domanda (l’IS vende il petrolio seguendo le oscillazioni del mercato come una normale compagnia). Il calcolo è facile: più o meno si tratta di 1.53 milioni di dollari giornalieri che entrano nelle casse del Califfato.

IL COMMERCIO

Contrariamente a quanto fin qui creduto sul contrabbando di petrolio ai paesi vicini (che pure esiste in varie aree meridionali della Turchia, ma anche a causa del calo del prezzo globale del greggio ha ormai un ruolo limitato), l’IS vende il petrolio sul mercato locale siriano e iracheno, dove è diventato «il produttore monopolista» del bene. La gran parte viene ceduto direttamente a commercianti indipendenti direttamente nei siti estrattivi. All’impianto di al Omar, racconta il FT, ci sono file di camion in attesa di caricare che durano per settimane (tanto che è nata un’economia recettiva a contorno). Il profitto medio di un operatore che vende il greggio appena caricato (cioè senza avventurarsi in operazioni di raffineria e senza spedire camion più piccoli a distribuirlo ai ribelli “non-IS”) è di 10 dollari a barile.
Le raffinerie mobili dell’IS sono state colpite dai raid della Coalizione, per questo il petrolio greggio viene portato in altre già esistenti, rimaste in mano ai vecchi proprietari, con cui il Califfo spartisce i guadagni (anche se ultimamente ci sarebbero segnali sulla possibilità che l’IS si sia rimesso a raffinare). Una volta che il petrolio è raffinato, lo Stato islamico è quasi completamente disimpegnato dal commercio: sono i commercianti e i rivenditori che si muovono indipendentemente (anche se alcuni “mercati” come quelli nella campagna a est di Aleppo sono controllati dall’IS che fa pagare delle decime “in stile medioevale” ai commercianti).

UN’ARMA STRATEGICA DA SEMPRE

Il petrolio è l’arma strategica negli obiettivi del Califfo, da sempre. A questo si lega la decisione di abbandonare i fronti più caldi nella fascia occidentale della Siria, perché più vicini alle roccaforti alawite. Quelle zone, che pure preservano la capacità strategica dello sbocco sul mare, sono allo stesso tempo sia le più abitate, e dunque più difficili da amministrare, sia le meno ricche di risorse energetiche (sono quelle contese dai ribelli “non-IS” e che sono oggetto della campagna di bombardamenti della Russia al fianco del regime di Damasco). A est, invece, dove la Siria si fonde in un’area rurale e semi-desertica con l’Anbar iracheno, c’è il petrolio (e c’è anche la parte di territorio siriano che permette la continuità con l’altro pezzo di Califfato, quello appunto delle aree sunniti irachene). Quando l’IS ha compiuto la sua spettacolare cavalcata verso Mosul, in Iraq, nel giugno 2014, la deviazione d’obbligo fu Kirkuk, una zona petrolifera. La città nell’aprile di quest’anno è uscita definitivamente dal controllo del Califfato (ripresa dai curdi che ne rivendicano da sempre i diritti sul suo petrolio), ma il Financial Times stima che abbia fruttato 450 mila dollari per ognuno dei dieci mesi che è stata in mano al Califfato.

LA GESTIONE DALL’ALTO

Per comprendere quanto è importante il petrolio per il Califfo, basta pensare che è una delle uniche tre attività controllate direttamente dal Consiglio della Shura, il gabinetto esecutivo dell’IS: le altre due sono le grandi campagne militari e il servizio media, che è la base del proselitismo internazionale. Tutte le altre gestioni sono delegate dalla leadership centrale a vari waly, governatori, locali. Un tempo era il leader noto come Abu Sayyaf a gestire tutto l’affare: l’uomo è poi stato ucciso durante un raid della Delta Force americana a metà maggio proprio nei pressi di Deir el Ezzor. È stata una delle uniche operazioni del genere fatte dagli Stati Uniti in Siria, a testimonianza dell’importanza cruciale attribuita al soggetto (e infatti sembra che dai documenti recuperati dalle forze speciali, ci sia un pozzo di informazioni su questo nevralgico asset del Califfato).

IL PETROLIO SERVE A TUTTI

Inoltre, per capire quanto è importante il petrolio e i suoi derivati in una terra come quella siriana, basta pensare che in quei territori la distribuzione elettrica è spesso traballante, e ospedali, uffici, pozzi per l’acqua potabile e l’agricoltura, è facile che siano costretti a lavorare attraverso generatori (che funzionano a mazout, una forma di gasolio pesante). Alcuni ribelli (“non-IS”) che combattono nelle zone di Aleppo, intervistati dal FT hanno ammesso che sono loro stessi degli acquirenti del “petrolio” del Califfato: lo usano per far funzionare i mezzi militari con cui poi combattono l’IS (dicono che spesso in vendita c’è solo quello, d’altronde). È paradossale, ma pure l’IS sa che quel carburante servirà alle forze nemiche, eppure la ragione economica e la necessità vincono su tutto (è il realismo, bellezza).

La centralità strategica del petrolio, è stata ricordata indirettamente dallo stesso Califfo Baghdadi, quando nell’unico discorso ufficiale da Mosul invitò ad andare a vivere sotto lo Stato islamico sia a combattenti tanto quanto tecnici, ingegneri (e medici).

I COLLEGAMENTI CON IL REGIME

Molti degli operatori dei campi pozzi in mano all’IS, sono stati mantenuti nei posti occupati in precedenza. Alcuni sono tecnici delle società statali, che per lungo tempo si è ritenuto fossero ancora pagati dal governo: circostanza poi parzialmente smentita, visto che pare sia anche l’IS ad occuparsi di parte degli stipendi. Ma il governo non può che abbozzare: il controllo sulle infrastrutture energetiche da parte del Califfato è talmente ampio (i campi estrattivi principali, 8 centrali elettriche nazionali, tre idroelettriche), che Damasco deve trattare per mantenere in piedi ciò che resta dello stato: soprattutto mantenere viva la fascia occidentale, dove gli elitari alawiti non vogliono saperne di vivere sotto la guerra e chiedono che i consumi, i beni e i servizi, siano protetti da Bashar el Assad in cambio dell’incondizionato consenso politico.

Tra proclami ufficiali, Damasco combatterà pure il terrorismo al fianco di Russia e Iran, ma per avere l’energia deve pagare il Califfato (altra circostanza paradossale, pagare l’obiettivo delle tue bombe): cioè deve pagare per poter consumare il suo stesso petrolio e gas.

Nonostante il ministero del Petrolio siriano ripeta che non c’è nessun accordo tra il governo e i terroristi di Daesh (acronimo dispregiativo arabo di IS usato dagli sciiti), il Financial Times ha raccolto decine di prove su come almeno un impianto di gas, quello grandissimo di Tuweinan, posto su un’area controllata dal Califfato, sia “cogestito” da IS e governo, con un accordo che prevede la spartizione dell’energia derivante dall’estrazione, mentre lo stato e le società private si occupano di stipendi e macchinari. Nel campo opera la Hesco, società di George Haswani, uomo posto sotto sanzioni UE perché si crede sia il tramite tra governo e Stato islamico sugli affari energetici. Stessa cosa, dai dati del giornale inglese, avviene nell’impianto Conoco, nella parte orientale di Deir el Ezzor. In queste situazioni l’IS impone un emiro della hisba (polizia religiosa) locale, per controllare la gestione: molti lavoratori hanno testimoniato che le condizioni di lavori imposte dall’IS sono molto dure. Altri uomini nominati dalla Shura centrale, si occupano invece di negoziare con il regime attraverso mediatori. Ci sono spesso scontri tra rappresentanti del governo e quelli dell’IS che però hanno come scopo, secondo le testimonianze raccolte dal FT, di influenzare l’accordo per ottenere migliori condizioni di gestione, e non di romperlo.

UNA REALTA’

Ci sono state diverse polemiche dopo l’uscita del pezzo del FT. Essenzialmente hanno preso una linea politica ed erano usate per criticare la missione militare a guida americana, ritenuta fallimentare perché non aveva raggiunto i propri obiettivi. Tra questi, limitare il traffico di petrolio del Califfato per inibirne quindi la principale fonte di guadagni (e dunque indebolirlo in toto). I risultati è vero che sono chiari e sotto gli occhi di tutti: il Califfato non sta perdendo. E si scopre che il commercio di petrolio è ancora tutto in piedi, e che, come fa notare il FT, la preoccupazione dell’IS, non è tanto che le infrastrutture vengano colpite dalla Coalizione, ma piuttosto che finiscano le risorse. Inoltre, c’è l’aspetto delle vendite e degli acquirenti. Qui non va sottovalutato che regime e ribelli “non-IS” devono scendere a compromessi per comprare quel petrolio, e anche la Coalizione ha dovuto intervenire in modo mirato e senza andare ad intaccare la rete infrastrutturale siriana. Distruggere i pozzi, avrebbe significato lasciare grandi fette di paese senza elettricità e creare una crisi energetica, presupposto per l’aggravarsi della situazione umanitaria.

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