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L’offensiva del Ramadan ha provocato un centinaio di vittime in tre continenti. E’ cominciata con il contrattacco a Kobane dove i curdi, praticamente lasciati soli, sono in difficoltà. Poi Lione, la Tunisia, la Somalia e per la prima volta il Kuwait dove sono stati massacrati gli sciiti riuniti in Moschea. Senza contare l’attentato progettato a Londra contro la parata delle truppe e sventato dalle forze di sicurezza britanniche.

L’Isis ha mostrato la sua capacità di mobilitazione, la sua “geometrica potenza di fuoco”, la sua force de frappe che si regge su un dosaggio sapiente tra terroristi “fai da te”, integralisti sunniti, miliziani e combattenti sul terreno. Soprattutto ha dimostrato una penetrazione ad ampio raggio e una abilità nel comando a lungo sottovalutata. Bisogna dare una risposta immediata e non può che venire oggi come oggi da un intervento aereo mirato a colpire il quartier generale. E’ già accaduto con un certo successo. Ma è chiaro che si tratta solo di una rappresaglia legittima, non è la soluzione né può essere la strategia alla lunga vincente.

L’Isis conduce più guerre in una, è stato detto, ed è vero: una di natura settaria contro gli sciiti, una per l’egemonia nel mondo musulmano e una contro l’Occidente. La prima trova adesione e sostegno tra i sunniti, innanzitutto iracheni, che si sono sentiti (a ragione) umiliati ed emarginati dopo la caduta di Saddam Hussein e la nascita di un regime a predominio sciita, favorito dagli americani e sostenuto dagli iraniani (le contraddizioni della storia!).

A tutto ciò si intrecciano i giochi delle potenze islamiche regionali che ci rimandano alla seconda guerra i cui grandi protagonisti sono l’Arabia Saudita e l’Iran. Senza dimenticare la Turchia che sta facendo quanto meno un triplo gioco. Tutti insieme, poi, si battono con armi diverse contro i “crociati”. Sauditi compresi? Ma come, se per mezzo secolo sono stati gli alleati più fedeli degli americani? Sì, sauditi compresi perché quel mezzo secolo si è chiuso l’11 settembre 2001, la monarchia è cambiata e gli eredi si stanno allontanando dalla strada di Ibn Saud, la penisola arabica è un grande paese popolato da masse povere nonostante la ricchezza immensa della oligarchia che lo comanda e attraversato da potenti tensioni religiose, ideologiche, sociali e politiche. Dall’altra parte del Golfo, del resto, l’Iran degli ayatollah non è stato piegato dalle sanzioni e dall’isolamento diplomatico, al contrario sta emergendo come un interlocutore indispensabile. Diverso e conflittuale, non c’è dubbio, ma anche la Russia lo è soprattutto con Putin.

Questo intreccio, anzi questo rompicapo, rende finora impossibile una risposta da parte dell’Occidente che non vuole combattere e tanto meno è in grado di farlo su più fronti. Anche le potenze che finora avevano esercitato un ruolo chiave nel Medio oriente, gli Stati Uniti e Israele, restano alla finestra. Gli uni sono ormai convinti che non possono più fare i poliziotti globali in un mondo multipolare con subpotenze a geometrie variabili; gli altri sono preoccupati soprattutto di difendersi (giustamente) e ritengono che le divisioni interne ai loro avversari di sempre può favorire il loro obiettivo minimo: divide et impera. Quanto all’Unione europea, non è un soggetto politico sull’arena internazionale, tanto meno lo è sul piano militare.

E la Nato? Oggi come oggi è impegnata a contenere un Putin il quale, in preda al suo narcisismo paranoico, ha annunciato 40 nuovi missili balistici intercontinentale in un esercizio di celodurismo che piace tanto a Matteo Salvini. Il leader della Lega è riuscito a dire, venerdì notte a Porta a Porta, che la Nato deve ritirarsi dal fronte est e dedicarsi alla lotta contro l’Isis. La Nato è stata usata contro al Qaeda soprattutto in Afghanistan. Ma i paesi che ne fanno parte si sono divisi sull’invasione dell’Iraq. La maggioranza di loro oggi ritiene che l’Alleanza atlantica debba tornare alla propria missione originaria: tenere lontana la Russia e mantenere in Europa un’America sempre più preoccupata di se stessa. Inoltre della Nato fa parte la Turchia che sostiene l’Isis con uomini e mezzi ed è pronta a giri di valzer con lo storico nemico russo pur di mettere una spina nel fianco degli americani (che pur temono e non i quali non vogliono rompere) e degli europei i quali li hanno respinti.

Che fare, allora? Si dice che l’unica strada sia formare una coalizione tra Stati Uniti, Europa e paesi arabi per attaccare il Califfato sul suo territorio, cioè tra Iraq e Siria. E la Libia? E il Sahel? Dopo, perché l’importante è schiacciare la testa del serpente nelle sabbie del nord Iraq. Il problema è che non ci sono Paesi arabi davvero disposti a coalizzarsi, in quanto usano l’Isis nella loro lotta per l’egemonia. Un tentativo è stato fatto, del resto, ed è fallito.

Tutte le discussioni, anche a livello più sofisticato di quelle televisive, lasciano una sensazione di assoluta impotenza. La situazione del resto è troppo seria per lasciarla ai generali, figurarsi a strateghi da talk show. Gli europei sono divisi, persino sulla percezione della minaccia (i tedeschi ad esempio non la sentono con la stessa acutezza, e i Paesi dell’est pensano ad altro soprattutto a tenere lontani gli immigrati musulmani). E non possiamo certo augurarci altri attentati ed altre vittime, magari a Berlino o a Praga, perché cambino le percezioni delle opinioni pubbliche e le priorità dei governi.

Gira e rigira, toccherà ancora una volta agli americani prendere l’iniziativa e agire a tutto campo. La prima mossa dovrà essere politica e diplomatica. Con Putin si tratta di tenere alta la guardia anche militare e nello stesso tempo coinvolgerlo direttamente nella lotta al terrorismo islamico. Zar Vladimir chiederà in cambio mano libera sulle “zone cuscinetto”, quella che Barack Obama gli ha negato fin dall’inizio. E questo non è possibile. La compensazione invece può avvenire sul piano economico perché Mosca ne ha un gran bisogno vista la profondità della sua crisi.

Nello stesso tempo, Washington può riattivare il canale preferenziale con Pechino. Anche in questo caso i cinesi chiederanno semaforo verde sul tratto di mare che va dal Vietnam al Giappone passando per le Filippine. Sarebbe troppo. Però la Cina potrebbe ottenere il riconoscimento di potenza navale che finora le è stato negato e al quale tiene molto. Il multipolarismo del quale tanto si parla avrebbe una applicazione pratica, gli Stati Uniti ne sarebbero protagonisti anziché subirlo.

La parte più difficile riguarda le potenze musulmane. In Turchia la spinta propulsiva di Erdogan si sta esaurendo, quindi riaprire una trattativa sull’ingresso nella Ue potrebbe innescare nuovi processi politici, darebbe forza ai “giovani turchi”, laici e non integralisti. Bruxelles dovrà ingoiarlo, non può continuare a proteggersi con le vite degli altri (vite americane soprattutto).

Ancor più complicato sarà mettere attorno a un tavolo Ryhad e Teheran, anche se è l’unica strada. La pace si fa tra nemici. Un patto di non belligeranza basato su un riconoscimento del Golfo Persico mare di pace, potrebbe essere la base di una trattativa sull’intero scacchiere. In questo scenario anche l’Egitto ha un ruolo fondamentale. Da una parte affidandogli una funzione stabilizzatrice in Nord Africa, dall’altra recuperando il rapporto privilegiato con Israele oggi scalzato di fatto dai sauditi.

E la Siria di Assad? E il Kurdistan? Qui bisogna seguire i dettami della realpolitik. Assad va rimosso, la Siria messa sotto tutela come il Libano. E i curdi debbono avere un loro stato, con il cuore nel nord dell’Iraq, ritagliando pezzi di territorio dagli stati confinanti. E’ uno scenario oggi utopistico, che richiede una sorta di versione mediorientale della pace di Westafalia e dell’equilibrio tra potenze. Ci vorrà molto tempo. Intanto bisogna rispondere colpo su colpo all’Isis, in Europa e in ogni continente. Ma esistono alternative?

Stefano Cingolani

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