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È davvero impressionante la quantità di tesi, spesso opposte, che sono messe in campo in questi giorni per giustificare politiche dell’immigrazione di un tipo o dell’altro. Si dividono gli Stati e si dividono i commentatori, in un ventaglio di proposte che va dal’ “apertura” totale o quasi delle frontiere a una “chiusura” altrettanto severa e drastica.

Molto differenti sono anche i motivi con cui si giustificano le scelte, anche quando si tratta di scelte simili o convergenti negli esiti pratici. Non c’è dubbio che l’immigrazione metta in discussione noi stessi e che non sia facile trovare risposte univoche. A maggior ragione in un paese ideologizzato come il nostro, ove non si è abituati ad affrontare pragmaticamente le questioni.

E ove le questioni stesse diventano un’occasione per dividersi simbolicamente nell’eterno gioco dei guelfi e ghibellini. È però abbastanza strano che Alessandro De Nicola, che è da sempre un liberale intransigente, critichi ora proprio l’approccio pragmatico di chi suggerisce che l’immissione di energie giovanili e manodopera a buon mercato potrebbe essere linfa vitale per le nostre esangui casse statali e quindi per garantire anche in futuro il nostro Welfare.

Da un liberale ci si sarebbe aspettato che mettesse in discussione proprio l’impianto welfaristico delle nostre società, non che dicesse che quei soldi sarebbero meglio spesi se favorissero gli autoctoni. Non sono in grado di giudicare se i conti portati da chi vuole rifinanziare il welfare con l’immigrazione, che De Nicola sprezzantemente definisce da “pianificatori sovietici”, siano ben fatti o meno.

Né credo valga troppo l’esempio storico degli Stati Uniti d’America, ove una politica di apertura delle frontiere ha fatto in qualche modo grande quella nazione: in Europa non ci sono le ampie distese e praterie da popolare che c’erano nell’Ottocento americano, ma una densità abitativa già forse incompatibile con il tenore di vita elevato a cui ci siamo abituati. Nonostante questi dubbi, il liberale, a mio avviso, non può non apprezzare il fatto che, puntando sulle motivazioni economiche, il discorso comincii a spostarsi sul terreno della concretezza, a deideologizzarsi.

Certo, De Nicola fa un discorso non del tutto campato in aria quando distingue il liberalismo ideale, che non può non ammettere la libera circolazione degli uomini e delle merci, e la realtà dei fatti, che impone restrizioni a questo sacro principio. Ma il principio deve comunque restare per il liberale una bussola ideale, un criterio regolativo. Una cosa è infatti misurarsi col “principio di realtà” e con la storia, conditio sine qua non per essere efficaci, un’altra è diventare più realista del re e, visto che l’ideale non può essere oggi realizzato nella sua “purezza”, accettare supinamente l’esistenza di uno Stato illimitato e provvidenzialistico.

Fra l’ideale liberale e lo statalismo imperante c’è tutta una serie di politiche, liberali appunto, che tendono a limitare e circoscrivere il potere sovrano. Francamente, della figura ossimorica del “liberale statalista”, a cui De Nicola sembra ora dar corso, non sentivamo la mancanza! La “morale provvisoria” del liberale non può spingersi così oltre fino a dire che lo Stato, fattosi arcigno e severo, debba accogliere provvisoriamente, per umanitarismo, gli immigrati e poi, una volta che le acque nei loro paesi di provenienza si siano calmate a sufficienza, rispedirli indietro come un pacco postale. Anche contro la loro volontà.

L’appartenenza a vita ad uno Stato geloso custode dei propri confini non solo non è liberale ma è alquanto contrastante con la comune esperienza storica dell’umanità. Che fare, allora? Il liberale non ha una “ricetta” pronta in tasca per i problemi, men che meno per questa alquanto controversa e ingarbugliata questione dell’ondata migratoria recente. Fra l’altro non si capisce se questi immigrati fuggono dal fondamentalismo e sono attratti dal nostro modello di società oppure appartengono semplicemente a una fazione islamista soccombente in una lotta senza quartiere fra fondamentalismi vari e di diverso grado (la società liberale non è neutra e relativistica: non può essere indifferente verso chi non l’accetta.

Il liberale disdegna poi l’umanitarismo, che è spesso ipocrita (come lascia intuire De Nicola) e a buon mercato, ma non certo lo spirito d’umanità, alla cui elevazione ogni altro suo fine particolare è diretto (il liberalismo non è altro che l’affinamento e la secolarizzazione dello spirito cristiano). Credo che il modo migliore per rispondere all’immigrazione sia di uscire dal modello statalistico, seppur trasportato a livello del super-Stato europeo (le idee delle “quote” è essa sì illiberale e da pianificazione sovietica), lasciando fare alle comunità nazionali e locali.

Come ha scritto un altro liberale storico, Carlo Lottieri, visto che non è facile dare risposte a una questione così ingarbugliata e controversa, meglio “navigare a vista” e mettere in concorrenza le diverse politiche dell’immigrazione. Verificheremo poi sul campo, a ragion veduta, qual è la migliore. D’altronde, non è il procedere per “tentativi ed errori” come diceva Popper, cioè in modo graduale, il metodo liberale per eccellenza? E può mai avere un senso lo spirito di solidarietà se è imposto per legge e non è sentito e vissuto da ognuno intimamente?

Perché, da liberale, dico no a pianificazioni sovietiche anche per gli immigrati

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