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Il 2024 sarà certamente l’anno politico delle elezioni europee. Questo è senz’altro vero, anche se probabilmente sarà anche l’anno zero di una nuova idea di Europa che potrebbe gettare le basi dell’avvenire. È l’esperienza a corroborare questa previsione. Non è possibile ripercorrere qui le diverse tappe che hanno portato alla genesi e al consolidamento economico ed istituzionale del nostro continente, a partire dalla tragedia che ha concluso la Seconda guerra mondiale. Tuttavia un punto decisivo deve essere tenuto presente nel giudizio sull’importanza del citato appuntamento elettorale che abbiamo dinnanzi. L’Unione non è nata con l’aspirazione di essere un nuovo superstato e non ha mai avuto l’intento di divenire minimamente un’alternativa individualista alle sovranità nazionali, consolidatesi nella modernità. Si è trattato piuttosto di un cammino di collaborazione tra popoli che hanno scommesso sulla loro pace futura, in contrapposizione ai conflitti che ne hanno contraddistinto le relazioni internazionali del passato. Un cammino importante, mai disgiunto da interessi di matrice commerciale ed economica, accresciutisi con il processo di mondializzazione del capitalismo e l’ampliarsi della competizione globale del nuovo secolo.

Questo complesso divenire, non senza le sue distorte contraddizioni, ci ha portati ad accettare la politica europea come una necessità. E in politica la necessità è la vera base della certezza.

Adesso però si apre una nuova stagione per tutti noi. Il tratto caratteristico del Parlamento di Strasburgo non potrà più essere animato solo da un esclusivo accordo neutrale rispetto alle fratricide contrapposizioni ideologiche interne agli Stati membri, ma dovrà tradursi ineluttabilmente in reale efficacia di governo, in programmi netti, chiari e alternativi, intelligibili sulla falsa riga delle distinzioni interne ai popoli, in attesa di avere figure rappresentative dell’intera Europa che abbiano anche una componente di popolarità riconoscibile e riconosciuta da tutti.

Se questo banale ragionamento ha un suo senso, allora è chiaro che il confronto dovrà articolarsi su un dualismo non tra interessi nazionali e interessi continentali, ma tra idee diverse e alternative di Europa. La politica, infatti, è tale se vede combattersi definizioni opposte dello stesso oggetto e non alternative tra oggetti diversi.

L’intero corpo elettorale, ben oltre la consapevolezza nitida che magari si svelerà nella campagna elettorale, dovrà decidere che Europa auspica, che identità ascrivere all’Unione politica, quale estensione e delimitazione di potere volere in comune con gli altri. È per queste ragioni che un’eventuale riedizione della maggioranza Ursula decreterebbe il fallimento dell’episodio elettorale, mentre la vittoria o del fronte conservatore o del fronte progressista una riuscita dell’impresa.

L’Europa, in questo frangente, non è altro che l’espressione simbolica di quale tipo di comunità politica, di Koinonia Politiké, desideriamo per il nostro continente. Un suggerimento metodologico ce lo segnala Aristotele, all’inizio del II Libro della Politica, quando sottolinea che o “i cittadini hanno in comune tutto, oppure soltanto qualcosa”. Ed è questa la scelta che adesso ci attende. Scegliere se e in che misura vogliamo sentirci parte totale o parziale di ciò che la parola Europa significa.

Fino ad oggi ha dominato la persuasione che questo tratto comune dovesse guadagnare spazio attraverso una progressiva crescita delle prerogative di Bruxelles e un’opposta diminuzione della forza degli Stati nazionali. Si tratta della quintessenza del paradigma progressista, secondo cui il potere genera uniformità, e la forza di ciò che è omogeneo determina eguaglianza, giustizia, miglioramento di vita, mediante la consequenziale diminuzione delle differenze, delle diseguaglianze, delle ingiuste sofferenze. Il primato dell’accezione economica che è stato dato a questa visione, di cui il compianto Jacques Delors è stato il vero padre, svela il sostrato ideologico socialista di questa definizione del continente come superamento dialettico della tradizione. I risultati imprevisti sono stati, tuttavia, l’emergere di una collettiva reazione negativa al rigore e alla perdita di popolarità dell’ambizioso progetto politico della sinistra.

Vi è ormai però una consolidata alternativa conservatrice a questa linea politica, un’opzione di destra, occorre ricordare, che non è anti-europea ma solo antiprogressista e antisocialista.

Concepire l’Unione non come una diminutio civitatis, bensì come una difesa comune dei diversi interessi nazionali è soltanto l’aspetto più visibile e meno profondo di questa lettura. In un mondo che è ormai dentro una guerra mondiale, in un mercato economico in cui l’Oriente e l’Occidente si confrontano in modo totale e diseguale, in un contesto globale dentro il quale le nostre sicurezze di benessere e di sopravvivenza sono minacciate, l’Europa deve mutare pelle e divenire lo strumento indispensabile di difesa culturale, militare ed economica della nostra civiltà e della nostra identità specifica.

La pace e la prosperità è dentro il cuore dell’Europa cristiana. La difesa della natura umana e della pace sociale è un’esclusiva solo delle nostre nazioni e del loro spirito. Il nostro continente dovrà essere non il luogo in cui tutti trovano la palingenesi di sterili e inesistenti diritti, divenuti ormai lo specchio di uno schiavismo disumanizzante, ma il luogo nel quale si salvaguarda, si conserva e si difende con forza l’identità tradizionale della civiltà neolatina, con i suoi valori, i suoi stili di vita, le sue aspirazioni di bene e di felicità personale, a cui è impossibile rinunciare.

In gioco non c’è il progresso europeo, ma il non-regresso; non c’è la pace perpetua, ma la nostra resistenza al conflitto di civiltà; non c’è la generalizzazione del male, ma la particolarità del nostro bene, altrimenti perduto.

L’alternativa idea conservatrice di Europa al progressismo si fonda sul dovere di restare sé stessi, di mantenere nel piccolo la grandezza di una civiltà antica, ordinata, consapevole della sua verità. Scommettere sull’Europa è credere che per noi la partita non è finita, che l’apocalisse umana non è ineluttabile, perché l’Europa con le sue nazioni esiste, è consapevole di sé ed è forte nel tutelare la sopravvivenza di ciò che siamo e vogliamo continuare ad essere in un mondo ormai vicino alla deriva barbarica e alla deflagrazione massificata.

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L’alternativa idea conservatrice di Europa al progressismo si fonda sul dovere di restare sé stessi, di mantenere nel piccolo la grandezza di una civiltà antica, ordinata, consapevole della sua verità. Scommettere sull’Europa è credere che per noi la partita non è finita. La riflessione di Benedetto Ippolito

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