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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori, pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Al vertice montanaro nelle Alpi Bavaresi, i Sette se la sono cavata alla bell’e meglio nonostante che le vette su cui arrampicarsi fossero parecchie e mancasse colui che è forse il miglior scalatore della élite diplomatica internazionale: quel John Kerry che ha conquistato, negli ultimi due anni, un buon numero di maglie gialle e rosa ma che, in un eccesso di passione sportiva, ha spinto un po’ troppo i pedali nell’attaccare un colle in Savoia e ci ha lasciato un femore.

Una perdita notevole, forse per tutti i paesi partecipanti e per qualche altro in più. Soprattutto il grande assente Vladimir Putin, che è stato squalificato e disinvitato, riportando così il summit al minimo dei partecipanti. L’agenda sul tavolo era però molto nutrita, incoraggiando i partecipanti a ripromettersi accordi sostanziosi ma senza dar loro i mezzi per raggiungere una agognata serie di unanimità.

Logica voleva che ci si occupasse soprattutto della Grecia e della ferita purulenta che essa è, nella carne viva dell’Europa; ma anche di temi magari più profondi ma sul momento più astratti come la protezione dell’ambiente, il Medio Oriente con l’Isis, gli accordi di libero scambio. Le mete più lontane, così, sono state raggiunte in misura inversamente proporzionale alle rispettive urgenze. E così si è finito, soprattutto sotto banco, a occuparsi prioritariamente dell’Ucraina e altre aree simili. Si è cercato, in sostanza, un do ut des: Obama aveva bisogno di essere rassicurato circa l’appoggio degli europei alla svolta nei rapporti con la Russia, sia nelle misure di ordine finanziario e commerciale sia, ma più sotto le righe, nei provvedimenti di carattere militare.

Obama sapeva che l’entusiasmo era limitato, soprattutto in paesi come l’Italia, che hanno i migliori rapporti con il Cremlino e il più limitato desiderio di controfirmare documenti che contengono linguaggi reminiscenti della Guerra fredda. Ha ottenuto nella misura del possibile, ma le regole del do ut des hanno in qualche misura indebolito la mano degli americani nel cercare di convincere la Germania e i suoi fedeli ad ammorbidire la sostanza o almeno i tempi delle condizioni proibitive da imporre ai greci.

Dalle Alpi Bavaresi non sono uscite proposte nuove. Al massimo un’attenuazione dei toni dopo lo scambio di acri dispetti tra il responsabile dell’Europa Juncker e il premier ellenico Tsipras, ma le posizioni non sono cambiate. La signora Merkel non può e non vuole «perdere la faccia» con dei passi indietro, il governo di Atene non può capitolare adesso, tre mesi dopo essere stato eletto quasi plebiscitariamente con il mandato di dire «no». Entrambe le parti dispongono di argomenti validi. L’Europa ricca, con capitale a Berlino, non intende rinunciare a «dare un esempio» in quanto teme che, altrimenti, nel Mediterraneo e dintorni spunterebbero «due, tre, molte Grecie». I greci non possono non insistere nel sottolineare che la dottrina dell’Austerity, dolorosa ovunque, ha avuto nell’Ellade conseguenze economiche e sociali addirittura rovinose: il calo del Pil del 25%, la disoccupazione schizzata dal 12 al 27%, gli stipendi tagliati del 32% nel settore privato, le pensioni quasi dimezzate del 44%, il ceto medio e il mercato del lavoro praticamente distrutti.

Un compromesso continua a essere pensabile, ma sempre più improbabile e legato ai risultati di una mediazione americana, che dovrebbe però essere bilanciata da un allineamento degli europei alla piccola Guerra fredda che rischia di accendersi con la Russia e che Obama, a quanto pare, è convinto di dover portare avanti, se non altro per riguardo all’opinione pubblica Usa che sta entrando in una fase preelettorale e che vede i falchi repubblicani impegnati a fondo nello sforzo di raddrizzare la politica estera dei democratici. Premio Nobel per la pace, Obama è colomba di istinto, ma deve tenere conto anche degli interessi del candidato che prenderà il suo posto e che quasi certamente sarà Hillary Clinton, tradizionalmente alquanto più falco. Anche perché al presidente mancano, per il momento, il sostegno e il raffinato arsenale diplomatico di quel ministro degli esteri che si è andato a rompere una gamba su per le montagne che videro le imprese di Fausto Coppi. Anche per la sua assenza, il vertice è stato un po’ più agro del solito. Al punto che un lettore della Sueddeutsche Zeitung ha spedito una lettera a quell’importante quotidiano proponendo che, visto come vanno le cose, la prossima sessione del G7 si svolga in un luogo più remoto. Su un’isola. A Sant’Elena.

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