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L’ennesima messa in scena del Governo Renzi, in contemporanea con l’enfatico annuncio dei milioni di posti di lavoro magicamente creati dal Job Act (ma chi ci crede?), si è consumata sul palcoscenico della concorrenza.

Le premesse erano buone. Nell’articolo 1 “Finalità” del disegno di legge licenziato dal Consiglio dei Ministri si legge che “la presente legge interviene a rimuovere ostacoli regolatori all’apertura dei mercati, a promuovere lo sviluppo della concorrenza e a garantire la tutela dei consumatori, anche in applicazione dei principi del diritto dell’Unione europea in materia di libera circolazione, concorrenza e apertura dei mercati, nonché, alle politiche europee in materia di concorrenza”. Oh, finalmente…si potrebbe dire!

E, invece, no. Per rasentare il ridicolo, ormai il Governo Renzi gli annunci li inserisce anche nei testi di legge, quasi a voler dire “noi l’abbiamo scritto, se non succede nulla che volete da noi? La colpa sarà dei soliti gufi”.

Al di là degli scherzi, se già le lenzuolate di bersaniana memoria apparivano ben poca cosa rispetto alle esigenze di concorrenzialità del Paese, le punture di spillo di Renzi, più che a promuovere la concorrenza e a liberalizzare i mercati, sembrano poco più che un timido (e difficilmente realizzabile) tentativo teso a far risparmiare qualche spicciolo a qualche consumatore. Non si intravede, dunque, né una strategia per favorire la crescita, né un grande piano redistributivo teso a promuovere l’equità sociale. Ancora una volta, non resta che molta propaganda e poca sostanza. Ma, del resto, è questa la cifra del Governo Renzi.

Si interviene su qualche settore (assicurazioni, energia, professionisti, telecomunicazioni, servizi bancari, farmacie), si pone qualche obbligo in più sulle imprese, si impongono per legge sconti o prezzi amministrati, si trasferisce un regime di privativa da una categoria ad un’altra (magari meno costosa), si permette l’ingresso dei soci di capitale in studi legali e farmacie, tenendosi ben alla larga dal nodo dei conflitti di interesse insiti nel sistema, ed ecco fatto, si raggiungono ben tre obiettivi in un colpo solo. Il Governo Renzi può continuare a spacciare per grandi riforme strutturali interventi marginali e spesso dannosi per il Paese, gli elettori (forse) risparmiano qualche euro su qualche aspetto altrettanto marginale della propria vita (ovviamente, da compensarsi con qualche altro aumento di tasse), ed il sistema economico – almeno nei talkshow e sui giornali – diventa concorrenziale.  

È l’impostazione che è sbagliata. La concorrenza aiuta a rendere più efficienti i mercati e, mercati più efficienti, significa spesso prezzi più bassi, migliore qualità delle prestazioni ed un maggiore grado di innovazione. Solo seguendo quest’ordine, un intervento normativo teso a “rimuovere ostacoli regolatori all’apertura dei mercati, a promuovere lo sviluppo della concorrenza” può ambire, nello stesso tempo, a tutelare i consumatori migliorando i servizi ed abbassandone i costi, ad attirare gli investimenti e a creare sviluppo.  

Occorre tradurre in provvedimenti normativi un ricetta economica precisa che, puntando sulla concorrenza e sulla liberalizzazione dei mercati – da realizzarsi principalmente riducendo il perimetro dell’intervento pubblico nell’economia, rimuovendo le situazioni di conflitto di interesse e riducendo i margini di discrezionalità della pubblica amministrazione – possa innescare un modello di sviluppo incentrato sull’inclusione e sull’equità sociale, rovesciando il paradigma su cui ancor oggi poggia il nostro sistema economico-imprenditoriale. Il paradigma cioè delle istituzioni estrattive che, concentrando il potere (economico, politico, mediatico) nelle mani di pochi, priva il sistema di quella dinamicità e creatività necessaria per competere sui mercati globali e risulta incapace di promuovere la coesione sociale.

Seguendo tale impostazione, uno dei terreni su cui è più urgente intervenire è quello dei servizi pubblici o, meglio, dei servizi di interesse economico generale che, per la loro rilevanza economica, possono avere un grande impatto in termini di attrazione di nuovi investimenti. Pensiamo al settore dei trasporti, a quanto la crescita dimensionale di un aeroporto (e non certo la proliferazione di tanti piccoli aeroporti ad uso e consumo degli interessi di pochi) e l’affidamento della relativa gestione ad operatori internazionali scelti con gara possa favorire lo sviluppo del turismo. In questo senso, anche se la strada è ancora lunga, l’esempio della Puglia e di come lo sviluppo degli aeroporti di Bari e Brindisi abbia favorito gli investimenti è illuminante. Pensiamo al settore dei servizi pubblici locali, dove la concorrenza può giocare un ruolo fondamentale per favorire l’integrazione tra i piccoli operatori ed il progressivo abbandono del modello del capitalismo pubblico locale, ovvero, per scardinare le rendite di posizione e favorire nuovi investimenti infrastrutturali. In questo senso, ove le condizioni di mercato lo permettano, occorrerebbe superare completamente il modello della “concessione di servizi”, sostituendola con un più semplice “contratto di servizi” che – su aree vaste – definisca gli obblighi di servizio pubblico e regoli l’utilizzo dei beni pubblici necessari per l’erogazione dei servizi. E, ancora, fare uscire la politica dalla gestione di tali attività, liberando i concessionari dei servizi pubblici dalle catene del clientelismo e, in qualche caso, purtroppo anche della corruzione. Pensiamo ancora a quante attività, specie nel settore sociale, potrebbero essere svolte anziché da organizzazioni burocratiche, dalla società civile, promuovendo investimenti nel terzo settore e liberando interi comparti (dalla salute ai servizi sociali) dal peso della burocrazia e degli interessi di parte. Pensiamo, infine, a quanto il nostro Paese necessiti di un’industria dei servizi efficiente e competitiva (turismo, cultura, finanza, professioni, informazioni, ecc…), capace di diventare motore dello sviluppo e di supportare adeguatamente il settore manifatturiero; e di quanto, invece, l’eccessiva invadenza del settore pubblico ne impedisca spesso la crescita. In particolare, l’industria dei servizi informativi andrebbe completamente liberalizzata, mettendo a disposizione del mercato l’immenso patrimonio informativo pubblico, permettendo l’erogazione di servizi a valore aggiunto in grado di accrescere la competitività delle nostre imprese.

Sono questi i settori di intervento su cui dovrebbe concentrarsi un disegno di legge sulla concorrenza. È su questi temi, su cui però non si riscontrano proposte, che si gioca tanto la crescita quanto la capacità del sistema economico di creare nuovi posti di lavoro.  

Nel suo intervento odierno, il Premier Renzi ha sottolineato come convivano due diverse immagini dell’Italia e degli italiani. La considerazione è certamente condivisibile, ma le motivazioni fornite per giustificarle però no. L’immagine di chi guarda l’Italia dall’esterno, riconoscendo la creatività, la capacità di adattarsi e di rimboccarsi le maniche degli italiani non va contrapposta a quella degli italiani che praticano lo sport di lamentarsi ad ogni costo del proprio Paese. No, non è credibile. L’altra immagine dell’Italia, infatti, è quella di chi la guarda dall’interno, di chi spesso trova sbarrate le porte del proprio futuro a causa di un sistema che si alimenta di clientele e di corruzione, in cui il sistema bancario finanzia le persone (ed i connessi interessi) piuttosto che le idee, in cui i costi (soprattutto quelli immateriali) per l’avvio di un’impresa risultano talmente elevati da scoraggiare anche le buone idee. Promuovere la concorrenza significa scardinare proprio queste barriere e, quindi, promuovere un modello inclusivo, fondato sull’equità e sul merito. Questo però non c’entra davvero nulla con i piccoli interventi sulle tariffe assicurative o sulla concorrenza nella distribuzione dei carburanti per autotrazione o, ancora, sull’eliminazione dei vincoli per il cambio di fornitore di servizi di telefonia. Avranno sicuramente la loro utilità, ma per favore non chiamiamoli interventi pro concorrenziali.

Le punture di spillo non rendono più competitivo il Paese

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