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«Is going to be a long-term campaign» ha detto Barack Obama nella serata di martedì. Il riferimento è all’operazione militare contro lo Stato Islamico in Iraq e Siria. Le parole contano, e tanto quanto quel “long-term”, questione su cui già diversi altri funzionari americani di massimo livello (su tutti il Capo delle Forze Armate, gen. Dempsey) erano stati chiari, quello su cui concentrarsi è “campaign”. Una “campagna” militare, non una semplice missione anti-terrorismo come finora era stata inquadrata – “l’operazione” non aveva ancora un nome, proprio per cercare (impossibile) di tenerne basso il profilo, come aveva fatto notare il Wall Street Journal. Ora, con ogni probabilità, seguiranno sviluppi alla campagna – e non solo con la scelta del nome.

Quello che esce dal “vertice di guerra” convocato martedì da Obama alla base aerea di Adnrews (la base dove è di stanza l’Air Force One) con i generali di 22 dei Paesi che rappresentano la Coalizione internazionale che sta combattendo il Califfo – per la cronaca, l’Italia c’era ed era rappresentata dal Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa), è che “servirà tempo”. «Ci saranno periodi in cui si faranno progressi e periodi in cui ci saranno battute d’arresto», ha detto il presidente americano: tutto e niente, praticamente.

Già, perché quello che di fatto è mancato è la definizione – solito di Obama (ma questa è un’opinione) – di come procederà il futuro della lotta allo Stato Islamico. Vero che i raid aerei hanno in molti casi risolto la situazione (Amerli, la Diga di Mosul, il Sinjar, la diga di Haditah), da ultimo in ordine cronologico l’azione più insistita su Kobane che ha portato risultati positivi. Dopo la lunga timidezza, nelle ultime due giornate operative la Coalizione ha condotto 21 attacchi aerei, spostando un po’ il segno verso i curdi, che sono riusciti a riconquistare porzioni periferiche della città prima in mano all’IS (riprendendo anche il controllo di Tall Shair Hill, collina strategica ad ovest del centro abitato).

Ma sembra non essere sufficiente. Il punto non è solo Kobane, sebbene sia nota da tempo la centralità della battaglia, lineamento strategico-geografico essenziale – con la conquista di Kobane si consoliderebbe un collegamento diretto tra le posizioni dello Stato islamico nella provincia di Aleppo e la capitale Raqqa nell’est; il Califfato avrebbe così il controllo di una bella fetta del confine tra Siria e Turchia. L’attenzione, anche e soprattutto mediatica (dal Pentagono avevano fatto sapere che non la ritenevano così fondamentale), che ha trasformato gli scontri al confine turco-siriano nel simbolo di questa guerra, ha rubato scena a situazioni altrettanto importanti. Lo Stato Islamico nonostante gli airstrike non si è fermato.

Avanza nella provincia di Anbar, dove sta per prendere quel che resta fuori dal suo controllo: slancio verso sud. «Arrivano a Baghdad» ha detto il generale Dempsey intervenuto in Tv all’ABC per fare il punto sulla situazione. Sono svariati giorni che gli analisti della CNN (quando staccano un attimo dal “loop Ebola“), avvertono che gli uomini di Baghdadi si trovano a una ventina di chilometri dall’aeroporto della capitale: un’unità si era spinta verso un posto militare iracheno che copre la strada diretta per la città, stavano per sopraffarlo, si sono dovuti alzare in volo gli elicotteri Apache per evitare il disastro.

Per questo dai comandanti militari americani – e da quelli di alcuni dei Paesi che hanno partecipato al vertice – arrivano pressioni affinché la Casa Bianca decida di aumentare l’impegno contro l’IS. E sul tavolo ci sono varie ipotesi.

La prima prevede l’utilizzo di uomini a terra: consiglieri militari, di fatto forze speciali come quelle già presenti (Delta, Berretti Verdi, Seals) che non si limitino ad organizzare l’esercito iracheno sulla carta, ma che si muovano con loro in prima linea. Obiettivo principale, “illuminare” i bersagli per i raid aerei: anche su Kobane, nonostante dall’YPG hanno fatto sapere che è iniziata la comunicazione sui target con la Coalizione, ci sono stati molte bombe finite a vuoto – i curdi lo avevano segnalato da subito. Ma non è escluso un impegno più attivo: gli advisor di stanza a Baghdad, per esempio, non potrebbero non intervenire se la situazione dovesse precipitare – su alcuni giornali inglesi, si era già stata diffusa la notizia di un gruppo di SAS intervenuto, sparando, al fianco dei curdi. La prima opzione, dunque, sarebbe un avvicinamento allo schierare truppe di terra: “boots on the ground” non definite tali (sebbene la differenza sarebbe piuttosto labile), ma d’altronde tutto ha un valore anche d’immagine in questa che l’Amministrazione Obama si rifiuta di chiamare “guerra” in pubblico.

La seconda delle opzioni sul tavolo per intensificare la morsa militare al Califfato, è l’uso degli elicotteri. Gli Apache, appunto. Certamente, come quando si parlava della possibilità di schierare i “cacciacarri” A10, sarebbero una tecnologia molto valida contro i mezzi dell’IS, ma presupporrebbero dei rischi. Una possibile base di appoggio, potrebbe essere l’al-Asad Airfield (ovest di Baghdad), come suggeriva Guido Olimpio (inviato a Washington del CorSera), ma il problema sta nel fatto che gli uomini di Baghdadi l’hanno da tempo circondata. Inoltre, usare gli Apache significherebbe esporre i propri mezzi al tiro dei sistemi terra-aria in mano all’IS (date le più basse quote di volo): sistemi che i soldati dello Stato Islamico hanno dimostrato di sapere usare abbattendo, negli ultimi giorni, due elicotteri iracheni.

Altra ipotesi in discussione, l’aumento (sensibile) dei raid aerei, che adesso – come più volte sottolineato – procede abbastanza lentamente, con una media di 7-10 operazioni giornaliere.

Oggetto di riflessioni durante il segretissimo vertice di Andrews, sembra essere stata anche la creazione di una buffer zone e di una no-fly zone al nord della Siria – richiesta diventata arma di ricatto negoziale della Turchia, che altrimenti si rifiuta di intervenire e pure di concedere le basi di appoggio.

Le prospettive sul futuro militare delle operazioni contro lo Stato Islamico, sono molto incerte: la posizione di Obama, molto combattuto tra la necessità di fare di più e quella di evitare di finire invischiato in una guerra “fangosa”, ha un suo peso.

Come sempre è accaduto fin dall’inizio della vicenda, forse sarà ancora il Califfo a dettare le tempistiche e i ritmi. Quando prese Falluja, quest’inverno, ancora lo Stato Islamico era una realtà (sottovalutata) inserita nel complesso, articolato, mono-tono, universo jihadista: argomento per osservatori e squadre di intelligence impigrite, che faticavano a spiegare al mondo quale ferocia, organizzazione, dinamicità, fermezza, avessero davanti. Poi la poderosa offensiva su Mosul catapultò tutti nella crudezza della realtà, concentrando sul Califfo le attenzioni globali. Sarà così di nuovo: perché è stata per prima la lungimiranza a mancare in tutta questa storia.

@danemblog

 

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