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Articolo pubblicato su Il Messaggero

Anche la prima guerra mondiale ha avuto la sua meglio gioventù. La cronaca militare dell’epoca così la descriveva nell’ordine del giorno firmato dal generale Armando Diaz il 18 novembre 1917: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico”. E aggiungeva, immortalandoli per sempre: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.

La letteratura ha raccontato, con la penna di Gabriele D’Annunzio, il passaggio tremendo di un’intera generazione di adolescenti dalla famiglia alla trincea: “La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!”. Quei grandi fanciulli erano nati l’ultimo anno dell’Ottocento: da qui il loro nome e cognome, “I ragazzi del ‘99”. Fu l’ultima leva di 265 mila italiani chiamati a “resistere, resistere, resistere!” sul fiume Piave, come esortava Vittorio Emanuele Orlando, l’allora presidente del Consiglio. Giovani di diciott’anni, a volte non compiuti, che hanno contribuito in modo decisivo “alla Vittoria”, come si diceva, e all’indipendenza dell’Italia il 4 novembre 1918. Spesso a costo della vita, perché decine di migliaia di loro non sono più tornati dal fronte del Nord-est. Un dato certo non esiste, in un conflitto che per l’Italia ha significato seicentomila morti e quasi un milione di feriti, di cui la metà mutilati.

Cent’anni dopo, in tutta Europa si preparano importanti celebrazioni della Grande Guerra iniziata il 28 luglio 1914. Lo farà anche il nostro Paese, spinto da un comitato di studiosi guidato dall’ex presidente del Senato (e alpino) Franco Marini. “Commemorazioni prima guerra mondiale 2014/2018”, dice il logo tricolore con un soldato disegnato di profilo. L’Italia, si sa, entra in guerra il 24 maggio 1915, come si rievoca nel celebre “il Piave mormorò: non passa lo straniero!”. Anche questa canzone si deve a un giovane fante, Luigi Saccaro. A lui si rivolse, visitando i soldati impegnati sul Piave, il re Vittorio Emanuele III. Gli chiese come vedesse la temibile avanzata dell’esercito austro-ungarico, dopo la già vissuta e drammatica disfatta di Caporetto a fine ottobre del 1917. Il soldato semplice, Saccaro Luigi, rispose: “Fin qui arriverà il nemico. Ma da qui non si passa”. Parole che sono diventate melodia nell’inno tuttora suonato nelle cerimonie di Stato.

Ma la vera “leggenda del Piave” fu quella dei ragazzi “abili e arruolati” di gran corsa, perché bisognava rinforzare l’ultima linea prima che fosse troppo tardi. “Oggi dall’Adige all’Adriatico le nostre armate passano all’attacco contro gli italiani”, comunicavano, trionfanti, i bollettini del comando austro-ungarico. E i soldati tedeschi sfidavano gli italiani con sicumera: “Andare Bassano bere caffè”. Proprio in quelle stesse e tragiche ore sul muro di una casetta semi-distrutta e abbandonata una mano ignota scriveva la struggente “risposta” italiana: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”. Era l’ora della verità per tutti. E l’arrivo di questi giovani, molti imberbi, che cantavano con lo spirito innocente e temerario tipico dell’età e dell’epoca di sacrifici, fu un’iniezione di coraggio e di tenerezza per i veterani, che erano stanchi e demoralizzati da tre anni di conflitto sanguinoso, dal freddo, dalle malattie, dalla fame. E poi la nostalgia di casa.

In tutto sono state ventisette le classi chiamate alle armi, la più vecchia quella degli uomini nati nel 1874. Perciò questi diciottenni che giungevano con passo svelto ma poco marziale, impetuosi come il fiume che dovevano difendere e generosi come la vita che molti di loro avrebbero dato per l’Italia, furono subito percepiti alla stregua di fratelli minori. Fratelli che infondevano speranza nel momento più buio. Giovani del popolo -figli di contadini, artigiani, falegnami- che bisognava paternamente proteggere, perché anche il loro addestramento era stato rapido: sul Monte Grappa e sul Piave non c’era più tempo. “Sul ponte di Bassano noi ci darem la mano”, dice un’altra malinconica canzone, evocando un amore lontano.

I ragazzi del ’99 furono, dunque, protagonisti di tre battaglie decisive, che hanno capovolto le sorti del conflitto: tutte e tre battaglie vinte. Le soprannominate “battaglia d’arresto” a cavallo fra il Trentino e il Veneto il 10 novembre 1917. Quella del “solstizio” a metà giugno del 1918. E la “battaglia di Vittorio Veneto” fra il 24 ottobre e il 3 novembre 1918. Come il generale Diaz aveva scritto quando li vide in azione, “io voglio che l’esercito sappia che i nostri giovani fratelli della classe 1899 hanno mostrato d’essere degni del retaggio di gloria che su essi discende”. A ben undici di questi soldati-ragazzini, originari di Roma, Milano, Messina, Ariano Irpino di Avellino, Riva di Trento, Firenze, Cagli di Pesaro, Longobucco di Cosenza, Novara e Lucca, cioè figli dell’Italia da quel momento libera e unita dal Brennero a Lampedusa, furono assegnate medaglie d’oro al valore.

Inaugurato dalle autorità giusto quarant’anni fa, nel 1974, a Bassano del Grappa sorge il monumento nazionale che ricorda quella generazione che nasceva, mentre l’Ottocento finiva. Fu voluto dall’associazione dei figli ormai anziani, e nipoti adulti, e loro figli di questa nostra pagina di storia che oggi si può raccontare con spirito nuovo. L’Europa che celebra, un secolo dopo, è l’Europa che da quasi settant’anni ha cancellato l’idea stessa della guerra che ha sconvolto per secoli la vita e le vicende delle sue popolazioni. Oggi l’Europa può ricordare finalmente in pace e riconciliata con se stessa: il futuro della memoria. Non ci sono più “nemici” alla frontiera, ma solo tanti sogni da condividere.

L’ultimo “ragazzo del ‘99” è scomparso a 107 anni nel 2007. Si chiamava Giovanni Antonio Carta, caporal maggiore di fanteria della Brigata Sassari e Cavaliere di Vittorio Veneto. Ma c’è chi dice che non fosse l’ultimo, come si conviene a una leggenda.

La leggenda dei Ragazzi del '99

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