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“Abbiamo stanziato dei fondi così da dare alle nostre navi un posto dove attraccare”. Il senatore filippino Sonny Angara, presidente della Commissione finanziaria, si rivolge ai giornalisti nella giornata di giovedì 14 dicembre, all’indomani dell’approvazione da parte del congresso di Manila del budget per il 2024. I fondi a cui fa riferimento Angara sono quelli destinati alla costruzione di un’infrastruttura sul Second Thomas Shoal (“Ayungin Shoal”, nella denominazione filippina), la striscia di terra nel Mar Cinese Meridionale su cui Pechino (che lo chiama “Renai Reef”) avanza da tempo delle pretese territoriali. Motivo per il quale nel 1999 il governo filippino ha deciso di farvi arenare sopra la Sierra Madre, una vecchia corazzata statunitense in disuso.

Già nello scorso agosto un altro senatore filippino, Chiz Escudero, aveva chiesto che almeno 100 milioni di pesos filippini fossero destinati alla costruzione di infrastrutture complementari sul Second Thomas Shoal “per finanziare la costruzione di un molo e di strutture di alloggio per i nostri soldati assegnati alla zona e per i nostri pescatori che potrebbero cercare un rifugio temporaneo in tempi di maltempo”, aggiungendo poi che “accoglierà i pescatori in difficoltà con una calda ospitalità, non con un getto di cannone ad acqua. È lì per aiutare e non per molestare”.

Il riferimento di Escudero è alla pratica cinese di sparare con i cannoni ad acqua sopra alle imbarcazioni filippine che si avvicinano all’atollo conteso, con l’obiettivo di impedire l’arrivo di rifornimenti al Second Thomas Shoal e di costringere Manila a rinunciare al suo controllo. Ma le stesse dinamiche registrate riguardo al Second Thomas Shoal si applicano anche ad altri territori che versano in una situazione simile. Lo scorso 9 dicembre vascelli cinesi hanno aperto il fuoco con cannoni ad acqua sopra a naviglio filippino nei pressi dell’atollo noto come Scarborough Shoal, formalmente appartenente alle Filippine ma occupato da Pechino sin dal 2012. E quando non sono azioni condotte con cannoni ad acqua, sono speronamenti veri e propri. E anche altro.

“Quest’anno c’è stata una graduale escalation, che si può far risalire a febbraio, quando un’imbarcazione cinese ha diretto un laser di tipo militare contro una nave filippina e le Filippine hanno reso pubblico il filmato” afferma a Foreign Policy il direttore del SeaLight Group dell’Università di Stanford Ray Powell, secondo cui l’obiettivo di Pechino è quello di scoraggiare i Paesi vicini dal seguire l’esempio delle Filippine nel rivendicare i propri diritti sulle acque che la Cina ha unilateralmente dichiarato appartenere a Pechino. Come il Vietnam (lo stesso Vietnam con cui sta portando avanti un parallelo processo di riavvicinamento) o il Giappone. “La Cina vuole comunicare di avere la giurisdizione nel Mar Cinese Meridionale e di poter decidere sulle attività che vi si svolgono” asserisce Powell.

Urtando anche la sensibilità di Washington, che vede in Manila uno dei suoi partner principali nella regione. Oltre ad aver preso pubblicamente posizione a favore delle Filippine, gli Stati Uniti hanno iniziato a rispondere “a tono” alle provocazioni cinesi, inviando aerei militari ogniqualvolta viene registrato un atto ostile da parte del naviglio di Pechino. Gesti simbolici che, però, non possono in alcun modo scoraggiare la Cina dal commettere gesti simili. E azioni più incisive sarebbero impensabili, dato l’altissimo rischio di escalation.

E se le azioni statunitensi sono solo simboliche, i risultati delle manovre di Pechino non lo sono affatto. Queste continue infrazioni hanno ricadute economiche sia sul breve che sul lungo periodo: se nel primo caso esse impediscono ai pescatori filippini dal navigare nelle acque della Zona Economica Esclusiva di Manila, nel secondo esse scoraggiano il friendshoring delle industrie occidentali attualmente operanti in Cina. Apportando un danno sostanziale al sistema-Paese delle Filippine.

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