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Stati Uniti ed Europa potrebbero aver fatto ambedue cilecca sulle banche, chi in un modo, chi nell’altro. Nel giro di tre settimane il fantasma di Lehman Brothers è tornato ad aleggiare sul mondo. Prima il fallimento della statunitense Svb, poi il coma e il risveglio del Credit Suisse, infine lo spaventoso capitombolo di Deutsche Bank. Insomma, non capita tutti i giorni una simile combo. Ed è qui che Marcello Messori, economista, saggista e gran conoscitore di cose bancarie, vede un filo tra i diversi casi.

Nel giro di poche settimane abbiamo visto il materializzarsi di crisi bancarie importanti, alcune scongiurate, altre no. L’origine dei dissesti è diversa, lo sappiamo, Svb non è come Credit Suisse. Eppure, le chiedo se è possibile trovare un minimo comun denominatore…

Esistono elementi che accomunano queste crisi e che riguardano, pur se con declinazioni diverse, gravi carenze di regolamentazione. I casi statunitensi sottolineano che la scelta, risalente all’amministrazione Trump, di indebolire le regole nei confronti delle banche non sistemiche ha aperto la strada a modelli di attività molto rischiosi. Per di più, nella pur pronta reazione all’emergenza, il governo federale ha ulteriormente indebolito le regole, perché ha creato eccezioni rispetto alle garanzie sui depositi che hanno segmentato il mercato e accentuato i rischi di illiquidità delle banche regionali. E la Fed ha immesso molta liquidità nel settore bancario senza discuterne la (in)congruenza con la politica monetaria restrittiva.

Insomma, autorità e regolatori, e anche la politica, ci hanno messo del loro. E in Europa, sponda Svizzera?

L’impatto del caso elvetico è stato, se possibile, ancora più devastante. Dandosi la zappa sui piedi, le autorità svizzere hanno catalogato il salvataggio da parte di Ubs come una operazione di mercato. Eppure, si sono lese le basilari regole di governance, in quanto l’assemblea degli azionisti di Ubs non si è preventivamente espressa sull’acquisto di Credit Suisse. E non è stata rispettata la gerarchia nelle risoluzioni delle crisi bancarie, salvaguardando parte del valore per gli azionisti e azzerando il valore delle obbligazioni perpetue At1 sulla base di clausole specifiche e forse valide in caso di fallimento. Inoltre, non è finita, si è calpestata qualsiasi norma antitrust, creando una posizione di monopolio nel mercato domestico.

C’è poi il caso tedesco. Lo scorso venerdì Deutsche Bank ha mostrato segni di cedimento in Borsa, sull’onda di un certo nervosismo e sfiducia. Siamo dinnanzi a una potenziale crisi sistemica in Europa oppure dobbiamo o possiamo stare un po’ più tranquilli?

Nella Ue e, in particolare, nell’euro area vi sono presidi di regolamentazione molto più severi. Ciò ha fatto sì che, in media, le banche dell’area euro siano robuste sotto il profilo della capitalizzazione e della liquidità e poco vulnerabili rispetto ai modelli di attività. Pertanto, ritengo che il caso Deutsche Bank e possibili casi analoghi non siano assimilabili a quelli statunitensi e svizzeri.

Allora possiamo stare sereni…

Un momento. Ciò non significa che, per l’eurozona il rischio di contagio sia nullo. Vi sono almeno quattro ragioni di relativa preoccupazione.

Ovvero?

La prima è che il mercato finanziario europeo rimane dominato, a differenza di quello statunitense, dall’attività bancaria cosicché è meno diversificato. La seconda ragione è che gli assetti regolamentari della zona euro sono incompleti dal momento che il processo centralizzato di risoluzione delle crisi bancarie è stato sacrificato a favore delle eterogenee normative nazionali e che la mancata approvazione del nuovo statuto del Meccanismo europeo di stabilità da parte dell’Italia sta bloccando un intervento pubblico accentrato di ultima istanza a sostegno delle banche in risoluzione. Inoltre, terzo elemento, non vi è una garanzia europea sui depositi. Ma non è tutto.

Che cosa manca all’elenco delle criticità?

Un’altra ragione di preoccupazione è che, pur se con scadenze meno appiattite sul lungo termine e con più prudente contabilizzazione rispetto ai casi statunitensi, molti settori bancari dei paesi fragili della zona euro detengono un eccesso di titoli nazionali del debito pubblico nei propri bilanci. Infine, anche la Banca centrale europea avrebbe difficoltà ad armonizzare eventuali immissioni straordinarie di liquidità nel settore bancario e la propria politica monetaria restrittiva.

Abbiamo più volte sentito dire che le banche italiane, complice il loro modello più tradizionale, sono al riparo e forse più solide. Al netto degli slogan, anche e non solo sbandierati per evitare il panico, le cose stanno davvero così?

Il settore bancario italiano si è irrobustito molto rispetto alle debolezze della fase 2014-2017. Esso rimane però il settore dell’area euro con la più alta incidenza di titoli nazionali del debito pubblico nel suo attivo. Oltre a essere – a torto o a ragione – uno degli ostacoli all’istituzione della garanzia europea sui depositi, questo eccessivo peso dei titoli pubblici nazionali rende le banche italiane particolarmente svantaggiate a causa dell’incompletezza dell’architettura regolamentare europea. Continuo a pensare al riguardo che la decisione, assunta a metà 2017 dal relativo meccanismo europeo, di non sottoporre a risoluzione le due maggiori banche venete sia stata improvvida perché ha ulteriormente bloccato il processo di Unione bancaria.

Lei rivanga vecchie storie, anche dolorose. E la Bce non è sufficiente ad evitare problemi?

Ritengo che il presidio della Bce come supervisore bancario unico, con facoltà di intervento precoce, sarà sufficiente a evitare un’eccessiva instabilità nel settore bancario europeo e dell’Italia. Ma gli effetti sulla politica monetaria non saranno facili da gestire.

I tassi… La Banca centrale europea, dopo quanto visto negli Stati Uniti – l’impatto dei tassi sul crack di Svb è innegabile – sembra voler proseguire sulla sua strada. Ma non sarebbe opportuna, invece, una pausa di riflessione?

Sono d’accordo sul fatto che, specie negli Stati Uniti, la fragilità bancaria sia esplosa a causa del detonatore rappresentato dagli innalzamenti nei tassi di interesse di policy. Il detonatore non va confuso con le cause della fragilità, anche perché non è mai prudente innescare un detonatore vicino a una polveriera. Fuor di metafora, nel decidere la loro politica monetaria, le banche centrali avrebbero dovuto e dovrebbero considerare anche il rischio di instabilità bancaria e finanziaria. Nel caso dell’Europa, vi è un fattore aggiuntivo che rafforza l’affermazione appena fatta.

Quale?

Quanto si è prima detto implica che la Bce rischia di essere lasciata sola ad assicurare la stabilità dei prezzi (il suo obiettivo prioritario) e la stabilità finanziaria. Ciò rende massime le contraddizioni nell’espletamento dei due compiti, creando situazioni davvero difficili da gestire. Gradualità e prudenza dovrebbero, quindi, essere principi fondamentali di ispirazione.

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