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“Vogliamo parlare dei tuoi amici?”, ha chiesto Jair Messias Bolsonaro, presidente uscente del Brasile, al rivale Luiz Inácio Lula da Silva, durante l’ultimo dibattito andato in onda lo scorso 16 ottobre. Dopo aver catalizzato più del 90% dei voti al primo turno elettorale del 2 ottobre, domenica Lula e Bolsonaro si sfideranno al ballottaggio. Nel cruciale testa a testa televisivo, in cui entrambi i candidati hanno tentato di mobilitare i quasi 33 milioni di astenuti, Bolsonaro ha chiesto conto a Lula dei suoi “amici”. Il presidente del Nicaragua Daniel Ortega, il boliviano Evo Morales, il venezuelano Maduro, Gustavo Petro neo-eletto in Colombia, e l’argentino Alberto Fernández. Tutti leader della sinistra latinoamericana, al governo di paesi con gravi problemi economici o di diritti umani, tutti nel passato o nel presente vicini al leader del PT. Tra un attacco personale e l’altro, Bolsonaro ha dichiarato di non volere per il Brasile la fine degli altri stati dove i presunti alleati ideologici di Lula sono al potere. I paesi investiti dalla marea rosa, secondo il leader di una destra anti-establishment e antiglobalista, non garantiscono “la libertà religiosa e il  rispetto per la famiglia e i valori tradizionali”. Ciò testimonia che dalle urne di domenica non emergerà solo il presidente della seconda più grande democrazia dell’emisfero occidentale. Sono infatti in competizione due opposte visioni del mondo, discernibili da come Lula e Bolsonaro si rapportano con il resto dell’America Latina, ma soprattutto con i grandi attori globali: Stati Uniti, Russia e Cina.

Il Brasile in America Latina

“Sono fiero della rivoluzione sandinista. Se Ortega sbaglia, il popolo nicaraguense lo punisca. Se Maduro sbaglia, il popolo venezuelano lo punisca”, ha replicato Lula di fronte alle telecamere, mettendo potenzialmente una pietra sopra la nuova marea rosa. Dai ritorni alla democrazia degli anni ‘80, l’America Latina è divisa tra l’accettare l’influenza degli Stati Uniti, tramite l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), o unire le sfumature di socialismo dei diversi governi contro “l’imperialismo yankee”, promuovendo iniziative regionali come CELAC e UNASUR. In questo contrasto, il Brasile di Lula aveva mantenuto rapporti cordiali sia con quelli che oggi Bolsonaro chiama i suoi “amici” (al tempo Chávez, Ortega e Morales), sia con l’amministrazione Obama. Questa politica ha permesso al Brasile di sviluppare un ruolo di leadership in America Latina, basato su una politica economica di mercato e welfare. Il recente atteggiamento di condanna da parte di Lula nei confronti dei regimi di Venezuela e Nicaragua può essere interpretato come un cambio di visione in politica estera, al di là della campagna elettorale. Il tempo della marea rosa è finito, un ipotetico Brasile a guida PT proverà a mobilitare la cooperazione regionale proponendo un’agenda di sviluppo e riforme, e non facendo fronte comune sul posizionamento ideologico. Questo implicherebbe una maggiore collaborazione sui temi ambientali con gli Stati Uniti, determinati a riaffermare influenza, tutela dell’ambiente e delle istituzioni democratiche in America Latina.

Al contrario, la strategia estera del governo Bolsonaro non ha mai avuto una direzione coerente, rispondendo principalmente a due fasi in continua tensione: la prima, “pragmatico-economica”, ha favorito le alleanze con i paesi del Mercosur e con gli Stati Uniti nell’era Trump. Questa fase è durata fino al recente sopravvento della campagna elettorale e della crisi ucraina, quando la politica estera del Brasile è diventata uno strumento per “compiacere” l’elettorato bolsonariano, entrando in una fase “religioso-ideologica”. In questi ultimi mesi, Bolsonaro si è scontrato con il neo presidente cileno Boric sulle elezioni, con Petro sulla legalizzazione della cocaina, e con Alberto Fernández sulla crisi economica. Che queste sinistre latinoamericane diventino o meno una nuova marea rosa, gli scenari più probabili per un secondo mandato di Bolsonaro sono l’isolamento diplomatico, lo stallo delle attività del Mercosur e una continua pressione da parte dei vicini per la salvaguardia dell’Amazzonia. Nel caso poi in cui Bolsonaro non accettasse una sconfitta elettorale, gli omologhi della destra sudamericana non sarebbero disposti a seguirlo. I presidenti di Uruguay, Ecuador e Paraguay hanno posizioni moderate o problemi interni. Solo il salvadoregno Nayib Bukele, in corsa per la rielezione, potrebbe non riconoscere un governo Lula.

Il Brasile, gli Stati Uniti e il mondo

Nonostante i recenti tentativi dell’amministrazione Biden di evitarlo, il ritorno della marea rosa in America Latina implica il ritorno della diffidenza verso gli Stati Uniti. Per il nuovo Brasile di Lula, le relazioni con Washington sarebbero la prima incognita. Come economia e bacino demografico emergente, dai primi 2000 il Brasile è parte dell’alleanza dei BRICS, assieme agli altri membri dell’acronimo: Russia, India, Cina e Sudafrica. Con Lula al governo, i BRICS hanno intensificato i rapporti commerciali e provato a riformare le organizzazioni sovranazionali (su tutte l’ONU), considerate troppo americane e poco vicine ai paesi poveri. Oggi l’alleanza è più viva che mai. Lula ha applaudito la richiesta di ingresso dei vicini-rivali argentini, e, ha espresso posizioni di “neutralità” sull’aggressione della Russia. Inoltre, Lula deve molto della sua popolarità al sistema di welfare (la Bolsa Família) finanziato grazie al boom delle materie prime e ai fiorenti rapporti commerciali con la Cina. Lula ha intenzione di coltivare questi rapporti, probabilmente siglando nuovi patti commerciali per rinforzare la tenuta economica del Brasile. E l’opinione pubblica brasiliana è favorevole alle relazioni con i BRICS tanto quanto a quelle con l’Occidente. Dall’eventuale rielezione, Lula potrebbe così intraprendere una politica estera alternativa a quella a guida americana. La Cina ha legami economici dominanti in quasi tutto il continente, e in più il suo appoggio rientra nella narrativa della cooperazione tra economie emergenti che si oppone all’egemonia di Washington. Se Lula decidesse di guidare l’America Latina sulla Nuova Via della Seta, difficilmente democrazie e dittature regionali di sinistra si tirerebbero indietro.

Nello stesso problema potrebbe incorrerebbe un Bolsonaro rieletto. L’invasione russa dell’Ucraina ha spaccato in due un mondo multipolare, chiamando i paesi più lontani a schierarsi per non rinunciare a relazioni diplomatiche e commerciali. Il Brasile bolsonariano l’ha fatto rimanendo fedele all’alleanza dei BRICS. Trovatosi nell’ultimo anno prima delle elezioni a rincorrere il rivale socialista nelle preferenze, con l’economia a sfavore, Bolsonaro ha tolto i freni inibitori alla corrente religioso-ideologica della sua politica estera. Ha incontrato Putin a Mosca otto giorni prima dell’invasione, perseguito le cruciali importazioni di fertilizzante e carbone dalla Russia e criticato le sanzioni all’ONU. Così, Bolsonaro si è messo contro la coalizione occidentale che protegge l’Ucraina. L’amministrazione Biden, di cui a lungo “Tropical Trump” non ha riconosciuto la legittimità, gli è ostile. Allo stesso modo, Bolsonaro, ha più volte dichiarato di battersi contro l’influenza cinese. Ma da un lato la quasi dipendenza dai rapporti commerciali iniziati nell’era Lula non gli ha mai permesso di distanziarsi dalla Cina. Dall’altro, la Cina considera Bolsonaro un alleato anti-occidentale. Restando orientato sulla linea di politica internazionale dei BRICS, è più probabile che Bolsonaro intensifichi i rapporti con la Cina, piuttosto che riallacci quelli con gli USA. A meno che l’amico Trump non torni alla Casa Bianca.

Il Brasile, l’Europa e il clima

Mentre le posizioni in politica estera di Lula e Bolsonaro convergono su molti dossier, le differenze più importanti tra i due candidati riguardano le politiche ambientali e il rapporto con l’Europa. In campagna elettorale, Lula ha fatto suo il tema della difesa dell’Amazzonia, rivendicando gli accordi del suo governo con l’Europa per la salvaguardia dell’ambiente, e promesso di fermare deforestazione e miniere illegali. Bolsonaro invece è rimasto vago sull’Amazzonia, vedendo l’ambientalismo come un freno alle sue politiche sovraniste. Al contrario, Lula ha promesso di siglare entro sei mesi dall’elezione il trattato commerciale tra UE e Mercosur. Le negoziazioni iniziate nel 2019 si erano interrotte anche per i cattivi rapporti tra i leader europei e Bolsonaro. Ora Bruxelles, che ha bisogno di questo accordo per intensificare i rapporti con il Sudamerica, vorrebbe inserire clausole per il commercio sostenibile. Nemmeno il ballottaggio di domenica 30 ottobre sarà però una partita sull’Amazzonia. La priorità per i milioni di brasiliani che domenica si recheranno alle urne, resterà l’economia. Le politiche climatiche hanno occupato una parte marginale nel rush finale della campagna elettorale. Proprio le ultime stimesull’economia latinoamericana, indicano che tra le riforme necessarie potrebbero non trovare spazio le costose promesse ambientaliste di Lula. Il Brasile che nascerà la prossima settimana sarà chiamato a posizionarsi tra marea rosa, BRICS, Occidente e isolamento. Se il presidente Lula vorrà fare le riforme ambientali, o il presidente Bolsonaro vorrà raddrizzare l’economia, avranno bisogno di alleati globali forti e subito. La Cina e gli Stati Uniti sono alla finestra.

Lula-Bolsonaro, al ballottaggio due opposte visioni del mondo

L’analisi di Parolari (Iai) sui rapporti del Brasile in Sudamerica, le relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa, il ruolo del Paese nei grandi dossier globali (come il Clima)

Gli Usa davanti alla Cina nella corsa tech. Il report (sparito) di Pechino

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