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Ricordo una risposta di Krzysztof Kieślowski, inserita in un filmato proiettato nel marzo 1997, a Roma, in occasione della prima rassegna completa del suo cinema (Palazzo delle Esposizioni), a una domanda circa la sua fede. Rispondeva che credeva in Dio ma non riusciva «ad individuarlo all’interno di una determinata religione». Eppure, aveva riflettuto sui dieci comandamenti (con il noto Decalogo, dieci film-tv realizzati nel biennio 1988-1989), seppur attraverso il filtro del caso (tema centrale della sua poetica). È innegabile che nel suo cinema c’è un Dio, ma è talmente rispettoso del nostro libero arbitrio che si nasconde dietro le nuvole, e lascia che tutto scorra “casualmente”. Pronto, però, a parlarci, come accade a Julie di Film blu (1992) attraverso i suoi interpreti (San Paolo), qualora attraversassimo un momento difficile.

Ho l’impressione che i personaggi di Kieślowski, sballottati dal caso ed esitanti d’avvicinarsi alla fede (tra i due “film polo”, da Przypadek, 1973, – Destino cieco a Film blu – 1992) siano in qualche modo parenti di quelli fluttuanti, inconsistenti, ridondanti “protagonisti” dei versi di Wisława Szymborska (Racconto antico, a cura di Andrea Ceccherelli, Adelphi, 2025). Personaggi, ironicamente ed educatamente atomizzati (particolarmente il tipo «autore»), che senza volerlo si sono lasciati agire oltre che dal caso, soprattutto dalla cattiva abitudine nel prendersi sul serio, di guardarsi narcisisticamente allo specchio (magari anche senza volerlo), dimenticando la vita che pulsa nel mondo degli altri, dei normali, inclusi gli oggetti.

Prendete, appunto, l’«autore» della poesia Racconto antico: «L’autore dà a ciascuno secondo il suo cuore:/a chi piange, la pioggia sul vetro, /a chi sorride, un piccolo raggio, /i vili tramano in mezzo alla bufera/». Oppure, ecco, ritratti sempre educatamente, ma senza pietà, civili e militari che, due volte l’anno, si offrono alla vista pubblica, con il loro mezzobusto: «Ma non si alzano mai in piedi, /stanno lì come impalati, /hanno avuto dall’emporio/ben settanta cuscini/di cui dieci ricamati/», La tribuna.

Con la lunga lirica Sobotka, o canto della notte di San Giovanni, siano dalle parti dell’umoristico saggio filosofico sull’amore liquido. In cosa consiste, sembra chiederci Szymborska, il nostro grande amore sognato sin dall’adolescenza? Un continuo montaggio di piccoli amori lungo la nostra breve-lunga vita. Amori che muoiono, cambaino e ri-nascono, tra sorriso e rassegnata ironica mestizia.

La soluzione stilistica, semplicemente geniale, ruota intorno a due minimi elementi linguistici, direbbe Roman Jakobson, del discorso: la congiunzione «e» e la virgola. Szymborska elegge a protagonista di questa intrigante simil-ballata, appunto la «e». Essa, testimone d’amore, sacerdotessa laica, lega i due nomi dei due innamorati. Ora parte il treno del caso, del destino kieslowskiano. Come in una continua serie di dissolvenze cinematografiche, la «e» di «Teresa e Piotr», sparisce, e al suo posto si materializza la virgola («Teresa, Piotr»). La virgola, a sua volta, lascia il posto nuovamente alla «e» che ora, però, sta legando «Tereza e Stanislaw», ma anche «Piotr e Katarzyna», ecc.. È un inanellarsi di «e» e virgole che legano, slegano e rilegano una serie di infinite coppie destinate a unirsi e disunirsi: ecco la vita sentimentale, per Szymborska (nel disincanto sin dal 1945: vedi Uscita dal cinema: le storie d’amore sul telone non le trovi nella vita).

Il finale di Sobotka? Solo nomi allineati senza «e», senza virgola: come, li potremmo leggere, quelli in fila nelle batterie dei sacelli cimiteriali. Sobotka, poteva esser un buon soggetto oltre che per Kieślowski anche per François Truffaut (e Antoine Doinel tra i protagonisti).

Se l’autrice, con il suo noto educato graffiante umorismo, non risparmia coloro che sono pieni di sé, mostra d’altro canto compassione, sempre con un velo gentile di ironia, magari da apologo (ci può ricordare Ennio Flaiano), per chi deve affrontare problemi veri: «Non so com’è/essere cacciato cacciata/ trovarsi in un paese di lingua diversa/imparare in fretta la parale «grazie» se qualcuno ti aiuta/la parola «scusa» se qualcuno ti guarda storto/a non essere mai troppo affamato/quando ti offrono del cibo/» (senza titolo).

Un altro affaccio sul mondo poetico di Szymborska sono gli oggetti che si animano e ci/si parlano (uno dei primi a parlare della vita degli oggetti in Europa fu il nostro Fortunato Depero, negli anni Venti): i primi esempi sono già presenti in liriche degli anni Sessanta (vedi Museo: sicuramente influenzata dal film animato Vzpoura hraček, -1946, La rivolta dei giocattoli di Hermína Týrlová, autentica rivoluzione nella storia del cinema). Gli oggetti (Il libro, Il secchio, Il tavolino, Il letto, ecc.), qui ospitati in mini racconti in prosa, prendono vita e pensiero all’interno di un plot concentrato in chiave ironico-surreale. Il significato parabolico è poi incorniciato da una glossa finale di due righe, titolate «Morale», in cui la poetessa “traduce” il mondo fantastico-meraviglioso (per citare Tzevan Todorov) della vita degli oggetti, in un insegnamento per i giovani.

La traduzione dal polacco di Andrea Ceccherelli segue le volute improvvise della fantasia di Szymborska con fine e studiata resa. Se, per esempio, nel rendere la rima (alternata) talvolta il testo non incontra difficoltà, nella maggioranza dei casi, ovviamente, la differenza di due codici lontani (lingua slava, lingua neolatina) non consente la rima nella lingua di arrivo. In questo caso Ceccherelli crea una nuova rima, spostandola su altri due elementi (per es., se non possibile tra due sostantivi, si va su verbi), salvando il senso originario dell’autrice, e, in alcuni casi, “arricchendolo” nella lingua di arrivo (è il lavoro di cesello dell’abile traduttore).

Il lettore che ha già ha nello scaffale, di Szymborska, il volume di Tutte le poesie, sottotitolo di La gioia di scrivere (Adelphi, 2009, qui si trovano anche Uscita dal cinema e Museo, di cui sopra), per le attente cure di Pietro Marchesani (come non ricordarsi l’incipit di In lode di mia sorella, «Mia sorella non scrive poesie/né penso si metterà a scrivere poesie/»), non può non terminare il suo viaggio nel mondo della nostra rinunciando a questa serie di avvolgenti pennellate ritrovate, di Racconto antico, in cui l’ironia vola leggera in alto, come traportata silenziosamente da un pallone aerostatico, soprattutto se ci capita d’incontrare «la più bella poesia polacca degli ultimi anni. L’autore è sconosciuto/. Ma di certo non è il poeta A /o il poeta B. o la poetessa S/».

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