Snellimento della regolazione, spinta agli investimenti, focus sulle piccole e medie imprese (Pmi) e rafforzamento della dimensione geopolitica sono i quattro principali leitmotiv dello studio “Un Piano per le priorità digitali del nuovo mandato UE” realizzato e presentato nel Parlamento europeo da PromethEUs, rete di think dell’Europa meridionale coordinata dall’Istituto per la Competitività (I-Com) e composta dal Real Instituto Elcano (Spagna), Iobe – Fondazione per la Ricerca Economica e Industriale (Grecia) e l’Istituto di Politica Pubblica – Lisbona (Portogallo).
Uno dei primissimi giri di boa della Commissione insediatasi il primo dicembre sarà il Competitiveness Compass, che a inizio 2025, abbozzerà le linee guida delle strategia Ue per recuperare competitività nei confronti delle aree più avanzate del mondo, a partire da Usa e Cina, che negli ultimi decenni hanno viaggiato a velocità decisamente più elevata, la prima consolidando il proprio vantaggio che nei primi anni Novanta si era ridotto a poche lunghezze, la seconda per provare a raggiungere e superare l’Occidente, a partire proprio dalla capacità di innovazione tecnologica.
L’analisi condotta da PromethEUs non a caso parte dalla regolamentazione, che in campo digitale (e non solo) è stata a torto o a ragione la grande protagonista degli ultimi due mandati delle istituzioni europee.
Oggi i player tecnologici attivi nell’Ue devono navigare tra oltre 100 normative esistenti e in via di attuazione, un panorama complesso che persino le grandi aziende trovano difficile gestire.
Per questo diventa fondamentale inserire il freno su future nuove iniziative regolamentari, soppesandone la reale necessità, e invece accelerare nel ridurre gli oneri burocratici a carico delle imprese e nel riconciliare testi che sono stati pensati per finalità e in circostanze diverse ma che finiscono spesso per sovrapporsi creando incertezza.
Tra le tante misure proposte nei rapporti Draghi e Letta quella contenuta in quest’ultimo di un ventottesimo ordinamento giuridico che permetta ai soggetti innovativi, a partire dalle start-up, di essere sottoposte allo stesso set di regole nell’intera Ue ovunque operino appare sacrosanta. Sarebbe così rimosso uno dei principali ostacoli oggi presenti sulla strada della crescita delle imprese al di fuori del proprio Paese d’origine.
Ma naturalmente la semplificazione normativa deve valere per tutte le imprese, a prescindere dalla loro natura, anzianità o dimensione.
Se i passati mandati delle istituzioni europee si sono concentrati sulle regole, l’attuale deve focalizzarsi sugli investimenti, come ha del resto più volte ribadito negli scorsi mesi e nelle lettere di missione da lei recapitate ai commissari designati la stessa Von der Leyen.
L’Ue dipende da Paesi terzi per oltre l’80% dei suoi prodotti, servizi, infrastrutture e proprietà intellettuali digitali. La mancanza di una strategia tecnologica e investimenti pubblici e privati insufficienti pesano sulla competitività dell’Ue nelle tecnologie digitali.
I dati mostrano che – in molti settori come l’IA, i semiconduttori e le tecnologie quantistiche – il divario di investimenti tra Usa e Ue si è ampliato nel tempo. Il budget attuale del Programma Europa Digitale (meno di 10 miliardi di euro in 7 anni) non è sufficiente per colmare il divario con gli Usa e la Cina.
Per questo occorre senz’altro ampliarlo nel nuovo quadro finanziario pluriennale, che sarà impostato e discusso a partire dal prossimo anno ed entrerà in vigore nel 2028.
Ma accanto al budget comunitario occorre pensare a dei meccanismi di finanziamento comune, come i joint undertakings che hanno dato buoni risultati ad esempio nell’high performance computing, consentendo all’Unione europea in pochi anni di superare la Cina e di recuperare parte del gap con gli Stati Uniti. Altro strumento interessante sono gli Ipcei, i progetti di interesse comune, che vanno tuttavia snelliti e aperti alla partecipazione delle Pmi.
Rispetto a queste ultime, che rappresentano per l’Italia e l’Europa meridionale più in generale la spina dorsale del sistema produttivo, la sfida principale è ora più che mai quella delle competenze. Programmi di upskilling e reskilling sono essenziali per garantirne competitività, sostenibilità e resilienza di fronte ai cambiamenti del mercato.
Gli spazi dati settoriali, immaginati dalla strategia Ue per i dati del febbraio 2020, dovrebbero completare questi sforzi, consentendo anche alle piccole imprese di accedere alla materia prima principale dell’intelligenza artificiale, di cui ovviamente possono disporre in minore quantità. Purché dalle parole si passi presto ai fatti, incentivando la condivisione dei dati e reprimendo comportamenti anticompetitivi.
Questo nuovo mandato Ue dovrebbe anche rafforzare e coordinare ulteriormente gli sforzi di diplomazia digitale, includendo la dimensione tecnologica nella politica di allargamento e mettendo in pratica la Strategia per la Sicurezza Economica.
La sfida tra Cina e Usa a colpi di restrizioni alle esportazioni dimostra come la tecnologia possa essere uno strumento strategico di politica estera, che può essere usato contro potenze rivali ma anche come terreno di collaborazione con paesi alleati e non solo.
Un esempio di dialogo necessario con quanti più attori possibile è dato dall’intelligenza artificiale e dalla cybersecurity. Senza naturalmente dimenticare l’opportunità di stringere collaborazioni strategiche con i Paesi con i quali si condividono prospettive e valori comuni. In questo senso, una delle sfide principali sarà quella di trovare un modus operandi con la nuova presidenza Trump.
I primi segnali sembrano incoraggianti e forse dopo tutto non sarà ancora arrivato il momento per celebrare le esequie del Trade and Technology Council, inaugurato durante la presidenza Biden, o magari si troveranno altre formule e altri tavoli ma mantenendone integro lo spirito nonché gli obiettivi (e perché no aumentandone l’efficacia).
Infine, lo studio analizza l’importanza del procurement pubblico per promuovere l’innovazione made in Europe. Come si fa in tutti i Paesi del mondo. Non si capisce perché non possa avvenire anche in ambito Ue.
Purché naturalmente gli Stati membri, che tengono in questo caso i principali cordoni della spesa, sappiano coordinarsi dandosi regole comuni, rinunciando almeno in parte a logiche campanilistiche in favore di una prospettiva europea e ricorrendo sempre di più ad acquisti congiunti.
Fin dai prossimi passi, che si incominceranno a delineare nel Competitiveness Compass della Commissione, si dovrebbe capire se queste e altre idee avranno un futuro davanti a sé oppure sono destinate a rimanere relegate nei cassetti delle istituzioni o prima ancora nelle sale convegni dei think tank.
Intanto, è il momento per far sentire la propria voce ed è un bene che talvolta il vento delle raccomandazioni di policy soffi dal Sud Europa.