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Dei rubli d’oro (che sarebbero finiti nelle tasche dei partiti di questo o quel Paese) si è parlato per un paio di giorni. Se ne riparlerà, però, dopo il 26 settembre, alla formazione del nuovo governo. Temo che non si coglierà questa occasione per analizzare come e perché Roma è una delle capitali internazionali dello spionaggio, anche di quello un po’ cialtrone che si inventa storie da “vendere” a giornalisti un poco grulli.

Vediamo perché. In primo luogo, le ambasciate sono spesso un ricettacolo di agenti segreti stranieri, più o meno tutelate da normative e prassi diplomatiche. Tutti i grandi Paesi, non solo quelli che più fanno spionaggio, hanno tre rappresentanze diplomatiche a Roma: una presso la Repubblica italiana, una presso le Organizzazioni agroalimentari delle Nazioni Unite (Fao, Ifad, Wfp) ed una presso lo Stato Città del Vaticano. Sulle prime i servizi segreti italiani (e il nostro ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale) riescono ad esercitare qualche sorveglianza. Sulle altre non possono e sarebbe scorretto se lo facessero.

A Roma, ci sono circa un’altra sessantina di organizzazioni internazionali, o piccole (Unidroit, Idlo) o sedi di rappresentanza di agenzie delle Nazioni Unite e simili. I russi e i cinesi hanno imparato da anni che questo è il veicolo migliore dove collocare loro “osservatori riservati” all’estero. La Cina, lo sanno tutti, oggi controlla la Fao dove colloca “compagni fidati” a Roma per osservare cosa avviene nel Vecchio Continente.

Quando lavoravo in Banca mondiale avevo una forte interazione con una Agenzia Onu. Familiarizzai con un mio coetaneo russo, che dirigeva una importante divisione, e la cui moglie lavorava all’ambasciata dell’Urss presso la Repubblica Francese. Due incarichi a Parigi di quel rango e di quella remunerazione non si hanno, se non si è ben connessi, nell’Urss e altrove. Online si trova ancora un libretto scritto da lui in quegli anni.

Poco dopo l’arrivo della perestroika e della glasnost, diede le dimissioni dall’Onu e sparì (presumo con la moglie e il figlioletto). Lo incontrai per caso alcuni anni dopo a Londra. Fu cortese, anzi squisito, mi invitò a colazione a Simpson’s on the Strand (il ristorante del Savoy Hotel, uno dei migliori, e dei più cari, di Londra). Mi raccontò che era tornato in Georgia, la sua patria d’origine, riottenuto la terre avite (piantagioni di thé) ed era nella capitale britannica per affari. Gli dissi che bevevo caffè. Ci scambiammo i biglietti da visita. E finì lì. Probabilmente, il suo lavoro parigino aveva avuto un ruolo nel riottenere le piantagioni.

Roma è diventata una capitale dello spionaggio dopo la seconda guerra mondiale, con la guerra fredda. Prima non lo era. Mario Toscano nel suo saggio sui negoziati per il patto d’acciaio documenta che il Conte Galeazzo Ciano era molto bravo con lingue: parlava perfettamente francese, inglese e tedesco e masticava un po’ di giapponese. Visto che a Tokyo era il Ministro degli Esteri in persona a trattare al telefono con Ciano, la burocrazia imperiale non poteva che inchinarsi. Ciano, dal canto suo, appena parlato con l’omologo nipponico chiamava von Ribbentrop a Berlino. Mentre a Cambridge Circus a Londra, i britannici ascoltavano tutto.

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