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Se non fosse per il reclamo dell’Associazione lombarda dei giornalisti contro l’inserto focoso a pagamento del console cinese sull’edizione milanese del Corriere della Sera e per l’occhio attento di Andrea Morigi su Libero, in questa torbida estate pre-elettorale ci sarebbe sfuggita la lieta notizia della fine dell’accordo venticinquennale tra l’Agenzia Nazionale della Stampa Associata (Ansa) e la Nuova Agenzia Cina (Xinhua). Ancora nel marzo 2019, la seconda stessa aveva fatto grande notizia per l’intensificazione del rapporto con “l’istituzione della linea speciale italiana” a cura della prima, descrivendola come “una pietra miliare nel processo di cooperazione tra le due agenzie”.

Era chiaro sin dall’inizio che i principi di rigorosa indipendenza, imparzialità e obiettività sanciti nel proprio statuto dell’Ansa mai si potevano sposare con la “responsabilità sociale” della Xinhua. Quest’ultima ancora nel suo rapporto annuale 2021 scriveva: “L’agenzia di stampa Xinhua è guidata dal pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, comprende profondamente il significato decisivo delle ‘due istituzioni’, rafforza le ‘quattro coscienze’, rafforza le ‘quattro fiducia in sé stessi’, realizza le ‘due manutenzioni’, e aderisce allo spirito del Partito [comunista cinese]”.

Permettetemi quindi di gioire profondamente per la fine decretata di tale cooperazione a soli tre anni di distanza. Una piccola grande vittoria per chi come Formiche.net ha sottolineato a più riprese la leggerezza con la quale fior fiore dei media italiani hanno dato “in prestito le loro barche” – per dirlo con il maoismo appropriato – a un regime autoritario intento – a dir loro – ad abbattere la democrazia costituzionale occidentale, i valori universali, la società civile e una concezione occidentale del giornalismo diametralmente opposta al principio cinese che i media devono essere soggetti della disciplina di partito.

Come scrive Sarah Cook nel rapporto Beijing’s Global Megaphone di Freedom House, “le campagne del Partito comunista cinese (Pcc) per influenzare i media nel mondo sono indirizzati sia a un pubblico cinese all’estero sia agli stranieri. Tradizionalmente sono stati concepiti per raggiungere tre obiettivi chiave, come evidenziato da dichiarazioni ufficiali, l’analisi dei contenuti e azioni contro le voci critiche: 1) promuovere una visione positiva della Cina e del regime autoritario del Pcc; 2) promuovere l’investimento estero in Cina e i suoi programmi strategici all’estero (vedasi la nuova Via della Seta); e 3) di marginalizzare, demonizzare o eliminare del tutto le voci critiche del e gli esposti sul Pcc”.

Queste tattiche “mirano a eliminare ogni commento o approfondimento sulle dimensioni negative del suo sistema politica autoritario e il suo modello di sviluppo economico: dalle atrocità commesse contro il popolo e le minoranze etniche e religiose, all’inquinamento ambientale”. Ecco perché l’idea che le notizie di “mera natura culturale o economica” è profondamente sbagliata poiché non sono mai soltanto queste. Inoltre, in modo che ricorda fin troppo la tortura della goccia cinese, includono per esempio messaggi martellanti sulla “riunificazione” di Taiwan con la Cina continentale. Una tecnica talmente efficace che persino i critici più feroci si fanno talvolta cogliere nel fallo, adottando il linguaggio di propaganda.

L’inserto a pagamento sull’edizione milanese del Corriere in un momento di massima tensione intorno alle isole democratiche di Taiwan è evidentemente stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso nelle classi giornalistiche. Ed ecco che sfugge anche la notizia della chiusura del rapporto Ansa-Xinhua avvenuta a quanto pare in tarda primavera.

Rimane difficile ricostruire l’intera vicenda poiché anche a notizia uscita, i ranghi rimangono serrati e le bocche chiuse. Pare di capire che l’invasione russa dell’Ucraina e il ruolo nefasto degli organi di propaganda e disinformazione abbiano influito non poco. Una lezione accelerata che ha maturata la consapevolezza governativa su un fronte tra dittature e democrazie già aperto anche all’interno del nostro Paese. Se sia stato Palazzo Chigi o il consiglio d’amministrazione dell’Ansa stessa a dare il là alla fine dell’accordo – nonostante un’offerta da parte della Xinhua che, a quanto risulta, prevedeva di triplicare la somma annua di 500.000 euro pur di mantenere l’accordo – non è dato sapere.

Sebbene possiamo solo applaudire la scelta, il silenzio nel quale è avvolta la notizia – com’è il caso anche per la riportata fine dei rapporti tra Xinhua e Agi – è ancora dimostrazione di quanto è delicato il tema. Segna infatti una grande perdita di faccia per un regime che dei suoi accordi con i media internazionali fa continua propaganda nazionale. Ed è sempre pronto a rivalersi con ferocia contro i Paesi “ribelli” come dimostrano i casi di Australia e Lituania.

Un silenzio che ricorda il mistero che ancora avvolge la campagna dell’anno scorso sul riconoscimento del genocidio degli uiguri alla commissione Esteri della Camera. Voci insistenti raccontano le telefonate arrivate a governo e deputati da imprenditori italiani con interessi in Cina, intimiditi a loro volta da pressioni provenienti da consolati cinesi o business partner cinesi. Sono tutte facce di quel Fronte Unito rafforzato ancora nel mese scorso da Xi e che con le buone o le cattive cerca di agire nel mondo.

È il caso di rompere quel muro di silenzio. Urge fare conoscenza nella società intera per irrobustire la nostra resilienza all’interferenza autoritaria nel Paese. E iniziamo a farlo con una notizia finale sconcertante: se l’ultima notizia firmata Xinhua sul sito Ansa data del 21 giugno scorso (ironia della sorte vuole che sia una notizia di “natura commerciale” vantando i grandi passi in avanti proprio nella Regione autonoma Uigura dello Xinjiang), il 22 giugno il timone del “Notiziario Xinhua” passa immediatamente all’Agenzia Nova. E la battaglia continua.

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