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Tra gli effetti collaterali di questa bizzarra campagna elettorale in mutande da bagno, c’è quello della probabilissima cristallizzazione del quadro restituito oggi dagli alacri sondaggisti. Parliamoci chiaro: c’è forse qualcuno che pensa veramente ad un dibattito pubblico su progetti e programmi nel mese di agosto?

Suvvia, non prendiamoci in giro: l’impraticabilità della competizione per nuovi attori (solo le sigle già presenti in Parlamento da un pezzo sono esentate dalla raccolta delle firme), restringe la scelta al mazzo che c’è già, escludendo conversioni degli elettori sulla base di programmi e proposte alternative. Dunque aspettiamoci l’allontanamento dalle urne di un altro pezzo d’Italia e scostamenti minimi rispetto a quello che già è sotto i nostri occhi: non ci sarà un voto popolare che sia effetto di una valutazione di programmi e idealità, ma solo del sentiment già consolidato. La novità del rassemblement di centro, capace di tramutare il pulviscolo stellare dei tanti centrini in una forza a due cifre, probabilmente farà fatica a manifestarsi, per molte ragioni: individualismi tipici dell’area di mezzo, mancanza di un vero idem sentire, idiosincrasie insuperabili, per cui sarà difficile che le colonne d’Ercole del tre per cento, che poi, col Parlamento ridotto, sale almeno al 5/6, siano valicate da più di uno tra i piccoli.

Alla fine avremo sul fronte sinistro l’arrampicata di Letta sui crinali più aspri per tenere insieme dei “sottoinsiemi” conflittuali, con l’allettamento di qualche collegio uninominale, e sul fronte destro la competizione per la “premiership” in base al principio di “chi prende più voti fa il nome del presidente”. E meno male che ha dovuto pensarci la destra a chiarire, per tacitare il pre-conflitto su chi dovrà comandare, perché nei giorni scorsi la narrazione aveva già preso una piega surreale seguendo la traccia del “chi è il premier del centrosinistra, chi è quello del centro, e chi quello della destra”.

Sono anni che qualche purista del lessico costituzionale conduce una persa battaglia sull’uso improprio del termine “premier” nel sistema italiano: la paroletta si lega ad una realtà che non trova spazio nel nostro ordinamento, perché richiama quella di un presidente dell’esecutivo eletto o indicato dal popolo, cosa che non è in un sistema come il nostro, chiaramente parlamentare. Il capo del governo, infatti, non è eletto né sanzionato dal voto o dall’indicazione del popolo, come nell’ipotesi di un sistema maggioritario bipolare, per esempio, all’inglese, dove il capo del partito vincitore è investito del ruolo di capo dell’esecutivo, il premier, appunto. Da noi i voti di fiducia vanno cercati e raccolti in Parlamento: abbiamo anche visto come talvolta accade anche su basi coalizionali del tutto imprevedibili.

Dunque questa indicazione del premier, del frontman, del frontrunner, dello sturmtruppen, a dirla con il grande fumettista Bonvi, appare una roba per giocare piuttosto che per spiegare alla gente come funziona. E, giocherellando à gogo, accade pure che la gente si domandi come mai da tanto tempo non ci siano “premier” eletti dal popolo ma solo nominati dal Capo dello Stato. Sarebbe allora giusto spiegare che i voti di fiducia il capo del governo se li deve guadagnare in Parlamento e che, se nessuna forza o coalizione è in grado di avere l’autosufficienza, si tenta la via di un super partes per garantire un governo al Paese. È il caso di Draghi ma anche dei due governi che l’hanno preceduto. Dunque quel personaggio lì che sta a capo del governo avendo ricevuto la fiducia in Parlamento da soggetti politici anche disomogenei, non si chiama premier, ma presidente del Consiglio. E non viene indicato prima agli elettori, proprio perché non è votato dalla gente. Che essendo in mutande da bagno e – giustamente – a bagnomaria, non terrà conto di precisazioni semantiche e si domanderà perché anche questa volta il premier non lo votano i cittadini.

Phisikk du role - Il candidato premier

Sarebbe giusto spiegare che i voti di fiducia il capo del governo se li deve guadagnare in Parlamento e che, se nessuna forza o coalizione è in grado di avere l’autosufficienza, si tenta la via di un super partes per garantire un governo al Paese. È il caso di Draghi ma anche dei due governi che l’hanno preceduto. E non viene indicato prima agli elettori, proprio perché non è votato dalla gente. La rubrica di Pino Pisicchio

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