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Tu vuo’ fa l’americanoGiuliano Amato, che di rapporti transatlantici si intende come pochi altri, in un recente convegno al Centro Studi Americani lo ha chiamato “vincolo atlantico”. Non un’amicizia, un vincolo. Chi ambisce a Palazzo Chigi deve passare prima o poi per il test a stelle e strisce. Con la notevole eccezione del governo gialloverde – quando Lega e Cinque Stelle hanno trascinato il Paese lontano dalle rive atlantiste, tra patti di seta cinesi e tappeti russi – è un rito iniziatico da cui non si sfugge.

Vale per le cancellerie europee, vale tanto più per Washington DC. Perché laggiù, lontano dai campanili di partito, vogliono sapere se il treno italiano finirà fuori dai binari tradizionali della politica estera oppure no. Ora che i sondaggi soffiano vento nelle vele del centrodestra – FdI e Giorgia Meloni in testa, Lega e FI dietro – in tanti si chiedono dove punterà la bussola diplomatica della coalizione qualora l’impresa dovesse riuscire. Tanto più all’indomani di una crisi di governo nel mezzo della guerra russa in Ucraina che all’estero è stata spesso raccontata così: uno sgambetto a Mario Draghi del “partito russo” italiano. Tesi che peraltro trova conferma nel pressing diplomatico russo – raccontato da La Verità e  La Stampa – perché la Lega ritirasse i suoi ministri dal governo, come è effettivamente accaduto.

Non è certo una novità che sui rotocalchi e nelle cancellerie anglosassoni il primo partito sospettato di “fuorigioco” verso il Cremlino sia quello di Matteo Salvini. Per l’accordo politico che ancora oggi, sulla carta, lo unisce al partito di Vladimir Putin “Russia Unita”. Per gli strepitii contro le sanzioni Ue e il terzismo sbandierato in questi mesi di massacri ucraini, per l’ostilità all’invio di armi e via dicendo. La connection russa leghista, in verità, conta un solo generale, Salvini, e quasi nessun colonnello. Consta di un rapporto personale del leader costruito negli anni con ambienti solo apparentemente centrali a Mosca: la segreteria del partito di Putin, i salotti ultra-ortodossi dell’oligarca Konstantin Malofeev, le tante associazioni di categoria che curano (anzi, curavano) gli affari padani.

A Via Bellerio però c’è anche chi, con costanza, si occupa da tempo di tenere vivo il canale atlantista. Il frontman resta Salvini. Il leader ha cercato un filo diretto con l’amministrazione Trump. Non è andata benissimo, e ha funzionato ancora meno con l’attuale Casa Bianca. Oltre a lui, il team esteri leghista è ben articolato. Si parte da Giancarlo Giorgetti, che nei suoi anni di governo (ma anche prima) assai si è speso per presentare all’estero il volto atlantista della Lega. Non sempre con successo, suo malgrado, e senza mai smentire la linea del segretario, com’è nel suo stile. Semmai inviando messaggi oltreoceano – è successo nei giorni della crisi – per rassicurare e spiegare, fin dove possibile.

L’atlantismo leghista, più che come atto di fedeltà, si palesa per negazione. Ad esempio, con una dichiarata ostilità alla Cina e alla sua penetrazione economica – considerati il nemico numero uno a Washington – o all’Iran. D’altra parte, un vincolo di ferro con Israele, quale che sia il premier in carica a Gerusalemme.

Su questa scia sono attivi e apprezzati parlamentari come il bresciano Paolo Formentini, battagliero membro della Commissione Esteri, o Raffaele Volpi, ex presidente del Copasir. Con loro ad occuparsi di esteri il toscano Guglielmo Picchi: ex sottosegretario alla Farnesina, lo scorso novembre ha guidato una delegazione parlamentare a Washington. A Bruxelles tesse il filo Marco Zanni, leader di Identità e democrazia, il rassemblement sovranista, ex M5S, negli anni a Strasburgo distintosi, insieme a colleghi come Marco Dreosto, come severo censore delle autocrazie russa e cinese. Tra gli amministratori, vanta una buona connection americana il governatore del Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, reduce da una settimana di incontri istituzionali a New York a inizio luglio.

Diverso il caso di Forza Italia, dove il passato atlantista di Silvio Berlusconi sembra essere messo in ombra dal più recente (neanche troppo) putinismo. Un rapporto più nostalgico che pragmatico: di fronte all’invasione russa in Ucraina, i tempi della special relationship con George Bush Jr. e dei summit a Pratica di Mare, puntualmente richiamati dal fondatore in questi giorni di ritorno sulle scene, sono ormai sbiaditi. Sul cv azzurro pesa poi, ora che la crisi energetica affossa l’Europa, il “peccato” di aver avallato in passato la dipendenza dal gas russo. Un legame, quello con la russa Gazprom, che ha trovato nell’Eni di Paolo Scaroni una sponda sicura e creato più di qualche mal di pancia dalle parti di Via Pinciana.

Ovviamente tra le fila forziste non mancano ospiti rituali di Villa Taverna. È il caso di Deborah Bergamini e di Valentino Valentini, da sempre braccio destro di Berlusconi per le cose estere, di Andrea Orsini e della neoeletta presidente in Commissione Esteri Stefania Craxi. O ancora di ambasciatori della vecchia guardia atlantista come Giorgio Mulè e Giuseppe Moles, storico braccio destro dell’ex ministro Antonio Martino, il più amerikano tra i pionieri azzurri.

Che dire invece della pattuglia meloniana, la più attenzionata all’estero in questo rush elettorale? La leader di Fdi, non c’è dubbio, ha lavorato in questi anni per ribaltare l’immagine di una destra storicamente attratta dall’antiamericanismo. Lo dimostra l’ennesimo smarcamento, questo giovedì, quando ha preso le distanze dalla polemica russo-leghista ribadendo a gran voce il profilo atlantista e “affidabile” del partito.

La fotografia in questo caso è opposta a quella del Carroccio. Se la presidente del partito allunga una mano a Washington, la base spesso la ritrae. Un recente sondaggio dell’Aspen dimostra che l’elettorato meloniano esprime il più basso gradimento verso la politica delle sanzioni alla Russia: solo il 63% degli elettori è a favore, a fronte del 76% fra i leghisti. E negli anni passati non sono mancate brusche virate: risalgono solo a due anni fa, ad esempio, le condanne di partito contro l’uccisione del generale iraniano Kassem Soleimani per mano americana. Meloni comunque lavora da tempo per rafforzare il legame americano. Solido nel mondo repubblicano, un po’ meno con l’establishment. È stato coltivato negli anni dai suoi colonnelli. Da Bruxelles si muovono l’europarlamentare Carlo Fidanza e Raffaele Fitto, capogruppo dei conservatori e pontiere con l’ala repubblicana del Congresso americano. L’immancabile Ignazio La Russa con il suo bagaglio d’esperienza da ministro della Difesa con Berlusconi, durante la guerra in Iraq. Fra chi è impegnato a tracciare il solco transatlantico spiccano il presidente del Copasir Adolfo Urso e il responsabile degli Esteri Andrea Delmastro, l’ex titolare della Farnesina Giulio Terzi di Sant’Agata e Lucio Malan.

Chiude il quadro a stelle e strisce del centrodestra italiano un bacino di “risorse” esterne, per ora, alle segreterie di partito e provenienti dalla società civile. È il caso di Paolo Alli: ex volto di punta di Ndc con Angelino Alfano con un passato in regione Lombardia, è considerato un asset, fra l’altro, per aver guidato (tra i primi italiani) l’assemblea parlamentare della Nato ed è stato consigliere al Mise di Giorgetti.

Nel centrodestra è poi tradizionalmente molto ascoltato Simone Crolla. Presidente della Camera di commercio italo-americana (AmCham), la rete che unisce industria e pmi da una parte all’altra dell’Atlantico, ha avuto una breve parentesi da deputato nelle fila di Fi e da anni è l’ambasciatore milanese a Washington, specialmente sui temi economici. Il suo nome, tra l’altro, era finito nel pallottoliere leghista per le comunali di Milano.

Su un altro versante, un riferimento per i rapporti atlantici è Francesco Giubilei, presidente di Nazione Futura e della Fondazione Tatarella, editore della Giubilei Regnani e attivo nel mondo conservatore. O ancora istituzioni rodate come la Fondazione De Gasperi diretta da Lorenzo Malagola, un passato da consigliere comunale di Milano e già braccio destro di Maurizio Sacconi, oggi molto ascoltato sul fronte diplomatico, specie in zona Fdi. E ancora, la Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliarello, la Fondazione Farefuturo che fa riferimento ad Urso e l’Istituto Bruno Leoni di Alberto Mingardi. Da Washington, l’Americans for Tax Reform (Atr), influente lobby anti-tasse fondata da Grover Norquist che con il centrodestra italiano ha un filo diretto grazie al vicepresidente Lorenzo Montanari.

Sempre Roma, è cresciuta la visibilità di Loredana Teodorescu, responsabile Affari europei dell’Istituto Sturzo. Tra i palazzi della capitale, infine, si infittisce l’attività dell’International Republican Institute (Iri), importante think tank di ispirazione repubblicana fondato ai tempi di Ronald Reagan che in Italia fa riferimento da un anno al responsabile del Programma Europa Thibault Muzergues.

Centrodestra a stelle e strisce. Una bussola

Il via vai a Villa Taverna, il lavorìo dei pontieri per spegnere le polemiche russe, il team atlantista nella società civile. Da Giorgetti a Zanni, da Valentini ad Urso, da Crolla a Giubilei. Guida ragionata all’American connection nel centrodestra

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