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Guai a chiamarlo “centro”. Carlo Calenda non vuole sentirne parlare. Vecchi nomi, vecchia storia. Spesso finita maluccio. Chi si è affisso addosso il cartello di “centrista” – gli anni recenti insegnano – raramente ha fatto man bassa alle urne. I “cartelli elettorali”, Calenda, non li sopporta proprio.

“Azione” non è il centro, e tanto meno è “moderata”, altra etichetta raramente foriera di bagni di folla. È semplicemente “alternativa”. A chi? Al “bipopulismo”, risponde in questi giorni l’ex ministro. Cioè al centrodestra a trazione Lega-Fdi e a quel che resta del Movimento Cinque Stelle, ritrovatisi nella stessa trincea a far saltare in aria il governo Draghi. “Rivendico il fatto di non aver fatto mai alleanze politiche con populisti di vario genere in questa legislatura”, ribadisce un giorno sì e l’altro pure. Il Pd, invece, quelle alleanze le ha fatte. Prima un anno e mezzo al governo con i grillini, poi l’incoronazione di Giuseppe Conte “riferimento dei progressisti” (copyright Nicola Zingaretti). Dunque un’alleanza politica, nazionale e locale, stiracchiata e infine strappata (forse) definitivamente, una settimana fa.

Acqua passata. Con il Rosatellum e lo scoglio degli uninominali, l’alleanza con il Pd di Enrico Letta e il centrosinistra è una strada quasi obbligata, e tra i due leader l’intesa va rafforzandosi. Non ci sarà invece, salvo sorprese, Italia Viva di Matteo Renzi, che ha cambiato simbolo ma agli occhi degli ex compagni di strada, e soprattutto di Letta, resta un ospite non gradito.

Calenda è di fronte a un bivio. I sondaggi privati non lasciano dubbi: correre da soli, senza apparentamenti, può pagare alle urne. Sarebbe un modo per raccogliere per strada gli elettori di centrodestra delusi, sì, ma non a tal punto da votare il Pd. Ma anche un assist alla gioiosa macchina da guerra di Lega, Fdi e Fi, contro cui i dem da soli possono fare poco. D’altra parte un’alleanza con Letta, con questa legge elettorale, garantirebbe un maggior numero di parlamentari eletti.

Comunque vada l’ex ministro si gode già lo spettacolo. Forse non sarà “il centro”, ma di sicuro è al centro. Due anni fa, quando ha sfoderato il logo di Azione – Crozza lo paragonò, impietoso, a una “marca di dentifricio” – in pochi ci hanno scommesso sopra. Tranne Emma Bonino, che infatti ancora oggi cammina a braccetto con Più Europa, i più storsero il naso.

Oggi Calenda cerca la rivincita e pensa in grande. Davanti a una campagna elettorale che già si configura scontro bipolare – sinistra e agenda Draghi da una parte, destra a trazione Meloni dall’altra – alla palude preferisce l’azione, nomen omen. Lunedì scorso ha sciorinato il programma. Concreto, governista, perché “se noi domani ereditassimo un bar da una zia lontana cercheremmo persone che hanno esperienza di gestione, non qualcuno senza esperienza”. Borghese, perché parla al ceto medio del Paese, ma lo fa partendo da posizioni forti, senza troppe piroette.

Di strada ne è stata fatta. Il bagno delle urne alle elezioni di Roma e alle amministrative di giugno – un buon risultato, talvolta un po’ gonfiato dal leader – ha dato il polso del potenziale e dei limiti del progetto calendiano. Che oggi è riuscito a uscire dai circoli della Roma bene e dall’Ultima spiaggia di Capalbio e si pensa su scala nazionale.

Di questa ambizione è un segno la fila alla porta che va allungandosi. Ci sono nomi eloquenti come l’ex azzurro Andrea Cangini e ­– scioglierà a breve la riserva – una ex colonna di Forza Italia come Mariastella Gelmini, fuoriuscita dal partito all’indomani del “Draghicidio”. Ce ne saranno altri. In queste ore il quartier generale di Azione è un continuo via vai di politici, giornalisti di punta, imprenditori. Fra questi, un importante editore milanese che si è concesso un pranzo con il leader. La foto di gruppo, dove figura dal giorno zero un altro colonnello, Matteo Richetti, è insomma destinata ad allargarsi.

C’è chi vi scorge un salto di qualità: crolla il mito dell’“esclusività” e l’immagine dell’unico “gallo nel pollaio” che Calenda è sembrato a tratti alimentare in questi primi anni di avventura politica. Per una perdita di “purezza” del progetto politico c’è un guadagno in pragmatismo. Lo stesso che ha convinto il leader a rompere gli indugi e allungare una mano a Letta per giocarsi le sue chances contro il blocco sovranista. Il restyling, di sostanza e non solo di forma, è andato di pari passo a un’evoluzione del personaggio pubblico Calenda. Costruito con un uso dei social network più trumpiano che andreottiano, oggi scade meno volentieri in quello sfottò che in passato gli ha attirato qualche antipatia.

È il momento di tirare le (prime) somme. Nel piano di Calenda il fattore tempo sarà decisivo. Alla cento metri il leader di Azione sembra infatti preferire la maratona. Il 25 settembre le urne potrebbero sorridergli – l’ultimo sondaggio di Swg lo dà al 6%, al di sopra della soglia minima del 3% ­– ma l’impressione è che il voto autunnale non sia il traguardo finale. L’apertura all’esterno della classe dirigente e l’intransigenza di fronte a certi compromessi – ad esempio il “grande centro” con Luigi Di Maio, Renzi, Toti, Brugnaro etc. – sono spie di un programma che guarda oltre la prossima legislatura. E di un percorso lento, partito dal basso, che con le dovute accortezze può portare lontano, un po’ come è successo a Giorgia Meloni, che è partita dal 3% e oggi veleggia oltre il 20%. Avviso ai naviganti: chi sul progetto calendiano ha già emesso una sentenza – di assoluzione o condanna – potrebbe doversi ricredere.

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