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La Cina ha annunciato che cercherà soluzioni ad alta tecnologia per risolvere le sue complesse sfide ambientali e farà uso delle innovazioni nei big data, nelle biotecnologie e nell’intelligenza artificiale per affrontare l’inquinamento, la perdita di habitat e il cambiamento climatico.

Stando agli obiettivi fissati da un piano d’azione, il governo cinese aveva dichiarato di voler costruire un “sistema di innovazione tecnologica verde” nel periodo 2021-2025 per affrontare l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle falde acquifere, ridurre i rifiuti e proteggere gli ecosistemi. Ora, a due anni dal lancio della super ambiziosa policy, Pechino riconosce che le tecnologie attuali non sono abbastanza mature per soddisfare le esigenze a lungo termine del Paese.

Il sistema sarà allora sostenuto da incentivi fiscali e da nuove “banche per la tecnologia verde”; la Cina incoraggerà inoltre le imprese e le istituzioni finanziarie a fornire un maggiore sostegno alle tecnologie verdi innovative. Qui sta il primo dei problemi: nonostante la grande spinta data alla finanza verde, la Cina ha raccolto molto meno di quanto ha seminato con la narrazione. L’interesse degli investitori internazionali per le obbligazioni verdi cinesi non è mai esploso, e peggio potrebbe andare se le nuove regole proposte da Pechino non dovessero essere soddisfacenti per il mercato.

In generale, dietro ai cali di interessi di questi ultimi mesi potrebbe esserci una generale cautela riguardo all’economia cinese (la cui crescita rallenta) e una diffidenza nei confronti della ulteriore stretta autoritaria, di carattere personalistico, che Xi Jinping ha dato al Paese dopo l’ottenimento del terzo, storico mandato alla guida del Partito e dello Stato.

In più, i piani verdi — progettati per aiutare il più grande produttore di gas serra del mondo a raggiungere gli obiettivi di portare le emissioni al picco entro il 2030 e di diventare “carbon neutral” entro il 2060 —  hanno sì visto la Cina ridurre di un terzo le emissioni di CO2 per unità di crescita economica, ma i volumi complessivi continuano ad aumentare.

Il piano hi-tech è stato ravvivato pochi giorni prima dell’inizio di un nuovo ciclo di colloqui globali sul clima che inizia oggi in Egitto (la COP27 a Sharm El Sheikh), con i rappresentanti cinesi che dovrebbero concentrarsi sulla persuasione dei Paesi industrializzati a fornire un fondo annuale da 100 miliardi di dollari, atteso da tempo, per aiutare le nazioni più povere ad adattarsi all’aumento delle temperature.

Pechino promette di “impiegare sistematicamente la scienza e la tecnologia” — due delle basi della visione di Xi — per risolvere un’ampia gamma di problemi ambientali, migliorare la capacità di valutare l’impatto dell’aumento delle temperature nelle regioni vulnerabili e monitorare le nuove fonti di inquinamento, le sostanze chimiche nocive e i batteri resistenti ai farmaci.

La Cina è pronta a sfruttare l’urgenza globale per affrontare il cambiamento climatico a proprio vantaggio strategico. È il principale produttore e utilizzatore di pannelli solari e turbine eoliche; è leader mondiale nella produzione di energia da dighe idroelettriche e sta costruendo più centrali nucleari di qualsiasi altro Paese; si lancia in iniziative hi-tech per la riduzione degli inquinanti; si pone come modello di riferimento per i Paesi più deboli insistendo perché si finanziano iniziative di assistenza.

Tuttavia la Cina è anche il paese che brucia più carbone di tutto al mondo e ha accelerato l’estrazione e la costruzione di centrali elettriche a carbone, facendo aumentare le emissioni di gas serra legate all’energia del Paese di quasi il 6% l’anno scorso, il ritmo più veloce degli ultimi dieci anni. La dipendenza della Cina dal carbone è destinata a durare per anni, se non decenni.

Il Partito/Stato considera il carbone — una fonte energetica superata, anche se alcuni Paesi sviluppati hanno iniziato a riutilizzarla a seguito dello scombussolato del mercato energetico prodotto dalla guerra russa in Ucraina — un bene strategico. La Cina ne possiede in abbondanza, ed è visto da Pechino come il modo migliore per evitare di diventare eccessivamente dipendente da fornitori di energia stranieri e di rimanere suscettibile a condizioni meteorologiche imprevedibili, come le siccità che riducono la produzione delle dighe idroelettriche.

L’uso del carbone pone una delle principali sfide alla partita climatica in Cina e per riflesso nel mondo, dato che il Paese emette quasi un terzo di tutti i gas serra prodotti dall’uomo, più di Stati Uniti, Europa e Giappone messi insieme. “Non c’è soluzione al cambiamento climatico senza ridurre la combustione di carbone in Cina”, per dirla nel modo limpido usato sul New York Times da David Sandalow, alto funzionario per l’energia nelle amministrazioni Obama e Clinton.

Per ora, nonostante i buoni propositi e le iniziative lanciate, il governo cinese ha dato spinta alla costruzione di altre centrali elettriche a carbone, a un costo che può arrivare a un miliardo di dollari l’una. Un’iniziativa che ha allarmato i funzionari occidentali. John Kerry, inviato dell’amministrazione Biden per il Clima, ha avvertito l’anno scorso che “l’aggiunta di oltre 200 gigawatt di carbone negli ultimi cinque anni, e ora altri 200 circa in fase di progettazione, se andasse a buon fine, annullerebbe di fatto la capacità del resto del mondo di raggiungere un limite di 1,5 gradi” di aumento della temperatura globale.

Davanti a questo, le dimensioni economiche e il raggiungimento di capacità politiche ormai tentacolari hanno permesso alla Cina di poter sostanzialmente svicolare da impegni globali. Xi ha promesso che le emissioni nette di carbonio della Cina raggiungeranno il picco “prima del 2030”, per poi ridursi a zero entro il 2060. Ma non ha specificato quanto aumenteranno le emissioni. Quindi, bruciare carbone in più nei prossimi anni potrebbe in teoria aiutare l’industria carbonifera a mantenere in funzione altre miniere e centrali elettriche per molti anni ancora con una produzione più elevata, proteggendo i profitti e i posti di lavoro.

Sulla questione del carbone c’è poi una delle discrepanze tra le autorità centrali e i funzionari locali. “A livello di governo locale, ci sono diversi gruppi di interesse che cercano di spingere le emissioni più in alto a livello provinciale”, ha spiegato Kevin Tu, fellow del Center on Global Energy Policy of Columbia University: “Questo genererebbe una maggiore crescita economica nel breve termine, purtroppo a spese dell’ambiente nel lungo periodo”.

Con un elemento ulteriore: anche sul mondo del Clima, si snoda la competizione tra Repubblica popolare cinese e Repubblica di Cina. A maggio 2022, la capacità cumulativa di energia rinnovabile installata sul territorio taiwanese aveva raggiunto 12,3 GW, un aumento significativo del 60% rispetto al 2016. Dal 2005 al 2020, il PIL di Taiwan è cresciuto del 79%, facendola diventare la 21esima economia del mondo. Nello stesso periodo, l’intensità delle emissioni di gas serra è diminuita del 45%, dimostrando che la crescita economica di Taipei è stata disaccoppiata dalle emissioni di gas serra. Industrie come quella dei semiconduttori sono effettivamente all’avanguardia nell’applicazione di sistemi hi-tech per controllare le emissioni inquinanti.

“La visione a lungo termine di Taiwan per il 2050 è quella di fare della transizione verso emissioni nette zero la nuova forza trainante dello sviluppo nazionale”, spiega Chang Tzi-chin, ministro dell’Amministrazione per la Protezione dell’Ambiente, in un documento inviato a Formiche.net. Tuttavia, aggiunge Chang, “a causa di fattori politici, Taiwan è esclusa dalle organizzazioni internazionali e non può partecipare in modo sostanziale alle discussioni sulle questioni climatiche globali” come quelle che si terranno alla COP27.

Come accade per altre organizzazioni multilaterali internazionali (come l’Icao o l’Interpol, di cui si era parlato su queste colonne, o la WHO), l’esclusione di Taiwan è guidata dalla Cina, che impone ai Paesi che vogliono costruire relazioni con essa di non riconoscere l’esistenza della Repubblica di Cina, Taiwan. Per il Partito/Stato è una provincia ribelle da annettere al proprio territorio per evitare l’ambiguità delle due Cine, considerata un vulnus identitario e dunque strategico.

“Ciò creerà delle lacune nella governance globale del clima. Taiwan ha limitate fonti di energia indipendenti e un sistema economico orientato al commercio estero. Se non riesce a collegarsi perfettamente con i meccanismi di cooperazione internazionale nell’ambito dell’accordo di Parigi, ciò non solo influirà sul processo di conversione al green delle industrie taiwanesi, ma minerà anche la stabilità delle catene di approvvigionamento internazionali”, spiega il ministro da Taipei.

(Photo by Photoholgic on Unsplash)

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