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I servizi di Intelligence cercano le informazioni che i governi dicono loro di cercare: questa è una vecchia massima dello spionaggio, le cui parole stanno a ricordarci che i servizi segreti sono uno strumento della politica, la quale può fare ricorso a essi in misura variabile, condizionata dai suoi fini, spesso mutevoli. I servizi di informazione possono così essere schierati a presidiare fronti e scenari più o meno ampi, complicati, rischiosi. Pochi scenari possono risultare complicati e rischiosi come quelli legati a una guerra e alle vicende che precedono il suo inizio.

Uno dei più grossi fallimenti dell’Intelligence statunitense è rappresentato, secondo molti studiosi, dall’attacco giapponese a Pearl Harbour il 7 dicembre 1941, che colse la marina militare americana completamente di sorpresa. Molto diversamente sono andate le cose nei mesi precedenti l’aggressione russa all’Ucraina, quando proprio l’Intelligence a stelle e strisce e quella britannica hanno più volte preannunciato quale piega avrebbero preso gli eventi.

Come ha gelidamente osservato il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, le informazioni fornite sul tema dai servizi europei sono risultate “meno accurate”, e forse non è del tutto un caso se il premier si è avvalso di un’espressione tipica della dottrina Intelligence anglosassone. L’Intelligence continentale, dunque, non ha visto ciò che era sotto gli occhi dei più attenti e che veniva preannunciato chiaramente da servizi “collegati” di prima grandezza.

Non è un evento usuale e non è facile da spiegare, a meno che non si voglia accedere alla tesi secondo la quale, in questa occasione, nell’Intelligence community europea è prevalso un atteggiamento tutt’altro che infrequente nel mondo dei servizi segreti, vale a dire quello di dire ai leader politici ciò che essi desiderano sentirsi dire.

Come siano andate veramente le cose è assai difficile da sapere, come sempre in casi del genere, ma certo è che alla luce di questa dormita generale appare ancor più stridente il contrasto con le espulsioni di massa decretate durante le prime settimane di guerra da parte di un gran numero di Paesi europei, tra i quali l’Italia, a carico di funzionari d’ambasciata russi; espulsioni rette da motivazioni assai esplicite, dallo spionaggio alle atrocità di Bucha, dalla violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche alle minacce per la sicurezza nazionale.

Si tratta di misure, nella sostanza, di carattere poco più che dimostrativo e tutte spostate sul piano politico, ma proprio per questo importanti perché confermano, anche con la loro spettacolarità, il momento di ritrovata unità dei Paesi europei sul terreno delle decisioni operative. Come dire: se la politica c’è, l’Intelligence segue, così come l’intendenza.

Qualcosa del genere si era già vista in Italia con il caso Biot: non solo una brillante operazione di controspionaggio, ma anche un forte segnale che per i russi le cose nello stivale stavano cambiando in peggio, sulla scia di quanto già avvenuto per disinnescare i rischi insiti nell’ormai arcinota operazione “Dalla Russia con amore” del marzo 2020 e, finalmente, in netta controtendenza con il caso Korshunov, il manager russo arrestato per spionaggio industriale su richiesta statunitense, ma poi estradato in Russia nell’agosto dello stesso 2020, per decisione del ministro della Giustizia italiano.

Per troppo tempo c’è stato, in Italia come in molte parti d’Europa, largo spazio per le sapienti azioni di ingerenza, influenza e disinformazione messe in campo dall’Intelligence russa, che ha saputo approfittare anche dell’indubbio vantaggio proveniente dalle forniture di gas. La dipendenza da tali forniture in una misura inaccettabile per ogni Stato attento alla propria sicurezza nazionale ha abbassato le nostre difese e i danni al tessuto politico sono ora evidenti in larga parte del continente. È da lì che bisogna ricominciare, come ha fatto la Francia. L’intelligence seguirà.

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