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Forse per capire come finirà una crisi di governo palese ma non ancora formalizzata e soprattutto analizzare il vero nodo tutt’altro che sciolto nel rapporto Quirinale-Palazzo Chigi, bisogna riandare alla conferenza stampa di Mario Draghi e operare un fermo immagine su quel “Chiedete a Mattarella” pronunciato dal premier riguardo i possibili passaggi all’indomani dell’eventuale non voto del M5S sul decreto Aiuti. Perché quella precisazione del presidente del Consiglio non è il semplice e dovuto omaggio alle prerogative del Capo dello Stato. Piuttosto l’espressione di una volontà precisa da parte di SuperMario: a farmi rosolare di qui alla fine della legislatura, lasciandomi infilzare come un San Sebastiano dalle frecce dei partiti, io non ci sto. Vale oggi per i Cinquestelle di rito contiano, vale a settembre per lo spadone di Salvini impugnato a Pontida.

Anche qui, la volontà del capo del governo è formalmente ineccepibile e anzi dimostra una tempra e, volendo, pure la manifestazione di una schiena dritta che è difficile ritrovare oggi nelle leadership delle forze politiche (e non solo).

Tuttavia la determinazione di Draghi squarcia il velo degli interessi e delle volontà di tutti gli attori, anche quelli ai vertici delle istituzioni. Analizziamo lo scenario più negativo. Conte e i suoi non votano la fiducia, ma non ritirano i ministri dalla squadra di governo, e già questo configura uno sbrego alle regole, appunto politico-istituzionali, di non trascurabile entità. Draghi sale al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Mattarella le congela rinviando il governo alle Camere per verificare la sussistenza dei numeri della maggioranza. Sussistenza garantita dagli scissionisti di Luigi Di Maio ma politicamente amputata dall’addio di Conte. In questo contesto cosa fa Draghi? Se bisogna dar retta alle sua parole, non c’è altra scelta della definitiva rinuncia a Palazzo Chigi. Senza i Cinquestelle non vado avanti, ha infatti ribadito SuperMario, e non c’è la possibilità di un Draghi-bis con sostegno diverso da quello iniziale.

E così la palla ritornerebbe sul Colle. È questo infatti il ping pong che minaccia la prosecuzione della legislatura. Com’è noto, e come ampiamente giustificato dalla complicatissima situazione geo-politica ed economica che stiamo vivendo, l’idea di sciogliere le Camere e andare ad elezioni anticipate scontando le inevitabili lacerazioni che la campagna elettorale determina e l’impasse di tre mesi conseguente alla chiusura dei seggi per insediare il nuovo Parlamento e allestire il nuovo governo, è considerata da Mattarella un incubo inaccettabile.

Ma se Draghi tiene il punto – ed è di questo che dovrebbe occuparsi la surreale “verifica” di domani dopo l’esito dell’aula di Palazzo Madama – quale altra strada è percorribile per arrivare alla conclusione della legislatura in modo ordinato? In realtà una sola: un altro governo “tecnico” con una maggioranza senza i Pentastellati. È un’opzione praticabile? In linea di principio sì, politicamente no. Quali forze politiche accetterebbero di intestarsi una Finanziaria se non di lacrime e sangue certamente contenente misure restrittive e chi si accollerebbe l’impopolarità di un tragitto verso le urne politiche del prossimo anno ingombrato da ostacoli e giochi rivendicativi al rialzo? Lo potrebbe fare il Pd mentre Conte cannoneggia da fuori? E con quali possibilità di poter poi proporre un’alleanza elettorale? Lo potrebbero accettare Salvini e Berlusconi scontando il medesimo atteggiamento da parte di Giorgia Meloni, dovendo poi riunirsi per offrire una proposta governativa agli elettori con nell’armadio lo scheletro della divaricazione?

Complicato. Magari anche troppo. Messa così, si ritorna alle due impossibilità denunciate da chi scrive qualche giorno addietro: le elezioni sono impossibili come è altrettanto impossibile andare avanti così.

In realtà scontiamo le troppe ambiguità che hanno pervaso il tentativo di Draghi fin dal primo momento. Oggi ne paghiamo il prezzo.

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“Chiedete a Mattarella”, ha detto Draghi nel corso della conferenza stampa di ieri a proposito della possibile mancata fiducia al governo da parte del Movimento. Quella precisazione del presidente del Consiglio non è il semplice e dovuto omaggio alle prerogative del Capo dello Stato, ma l’espressione di una volontà: non mi farò impallinare dai partiti

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