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La forza dei 5 Stelle è stata, fino alle elezioni politiche del 2018 e alla prima esperienza di governo, quella di avere, come ora si usa dire, una visione – un’originale versione di antipolitica populista – combinata con una subcultura politico-organizzativa. Una visione il cui nucleo ideologico è costituito dalla de-professionalizzazione della politica e dalla rimozione dei corpi intermedi tramite la democrazia digitale diretta. Una subcultura i cui modelli di comportamento sono improntati all’obbedienza a una leadership carismatica. Date queste caratteristiche costitutive, tanto la visione, quanto la subcultura sono state minate alla base dall’istituzionalizzazione politico-governativa e dall’esaurirsi delle dinamiche carismatiche, pur routinizzate. Benché indebolite, di esse restano elementi e tratti, più o meno interiorizzati nelle diverse componenti degli eletti e degli iscritti. Un fatto, questo, che non soltanto rallenta una più piena istituzionalizzazione democratica del M5S, ma ne compromette la tenuta interna.

Ad avere un’influenza negativa è l’assenza della pratica del conflitto, inteso come confronto-scontro aperto tra concezioni strategiche e organizzative alternative. Modelli di comportamento promossi, legittimati e sanzionati per più di un quindicennio dalla leadership lo hanno impedito – prova ne è l’ininterrotta sequela delle espulsioni. Ma se un grave deficit di pluralismo preclude il conflitto, è inevitabile che a svilupparsi siano la competizione e la guerra, intese come tipi di relazione sociale, come logiche di azione. Ed è quel che accade nel Movimento, specialmente dalla tentata rifondazione, con la gestione provvisoria di Vito Crimi seguita dall’affidamento della leadership a Giuseppe Conte.

I caratteri che la crisi attuale del M5S è venuta assumendo – ora evidenziati e acutizzati dal ginepraio giuridico conseguente all’ordinanza del tribunale di Napoli, sospensiva delle cariche elette – hanno avuto avvio nel summit romano del 28 febbraio 2021, con l’incarico dato da Grillo a Conte di elaborare il progetto riforma del Movimento 5 Stelle: incarico significante in pari tempo la sua designazione al vertice del partito. Ritenere che il suo credito personale attestato dai sondaggi potesse consentire un altrimenti insperato riscatto elettorale è stata, è ancora, una valutazione ampiamente condivisa nelle file del movimento, tanto da eleggerlo pochi mesi dopo presidente del partito con il 93% dei sì. Non altrettanto condiviso però è risultato accettarne, con l’investitura formale, il ruolo effettivo di capo politico. A darne ripetuta evidenza, le tensioni, accuse, sconfessioni, schermaglie e prove di forza tra i principali personaggi – Conte, Di Maio, Grillo, Casaleggio e, a bordo campo, Di Battista – dopo quel summit di fine febbraio.

Diventare leader effettivo del M5S equivale per Conte a ottenere libertà d’azione, cioè piena autonomia rispetto alla trinità Grillo-Di Maio-Casaleggio. Ne è seguita, se non proprio una congegnata strategia di conquista, una rapida progressione tattica volta a espugnare le torri del castello 5 Stelle. Ne sono derivate dispute e contese, espressioni non di conflitti su contenuti ideali e programmatici, bensì di guerre e competizioni: la guerra per sottrarsi al controllo dell’Elevato, la guerra per liberarsi della piattaforma Rousseau gestita da Casaleggio, la competizione con Di Maio. Povere, se non prive, come sono di contenuti conflittuali, si tratta di contese che si sviluppano – in modo più manifesto le prime due, più dissimulato la terza – come pure lotte di potere.

Il fatto che le contese si siano dispiegate sostanzialmente sul piano giuridico-regolamentare, la prima, e su quello mediatico (conferenze, video, post, esternazioni televisive volanti) la seconda, ha trasformato i parlamentari in spettatori – un segno distintivo delle lotte al vertice quando sono pure lotte di potere. A ben vedere, gli spettatori disorientati sono indotti ciclicamente a reagire come tifoserie o fazioni diffidenti, litigiose e frustrate: in una parola, demoralizzate. Si capisce, allora, come un esito negativo del ricorso depositato contro la sospensione delle deliberazioni pentastellate potrebbe rendere una simile situazione ingovernabile.

Nella storia del M5S ogni volta che in frangenti politicamente critici è risuonato l’appello alla coesione – a stare uniti, a “fare testuggine”, a “rimanere in silenzio” e simili -, invocato da Grillo o echeggiato dai suoi maggiorenti, vi è stato, espulsioni a volte aiutando, un sostanziale serrare le fila. Non così nella crisi attuale. Perché? Di là dal susseguirsi meccanico o alchemico degli eventi e dei comportamenti, quali i fattori alla base della differenza col passato? Due i principali. L’uno, essere l’attuale una crisi del tutto interna, tale da non poterne imputare motivi o colpe ad altri; l’altro, non essere più sufficiente a muovere i parlamentari a unità l’identificazione in Grillo, ed essere debole quella in Conte, malgrado l’alto grado di fiducia registrato nella pubblica opinione.

In più, quando la crisi di un gruppo politico è seria ne viene messa alla prova l’identità. Beninteso, avere una definita e salda identità può non esser sufficiente per superare la crisi, lo è però per ottenere una condizione necessaria: la coesione. Non è con tutta evidenza il caso del Movimento 5 Stelle. E poiché tra coesione e identità collettiva vi è connessione… Pur con indubbi rischi, soltanto un congresso, un vero congresso – il primo, un’inedita manifestazione di dialettica pluralistica – potrebbe salvare il M5S, o almeno quel che, riconoscibile o meno, ne resterebbe per la ripartenza. Ma per confrontarsi, si sa, ci vogliono le idee…

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